Parlavate di compromettersi per la «squadra». Che cosa intendevate dire?

Questo è uno dei punti più delicati e indubbiamente il più difficile. Ne abbiamo abbozzato l'idea poco fa, quando dicevamo che bisogna assolutamente impedire a chiunque di mettere il dito fra l'albero e la scorza, e che nessun membro della squadra deve in qualche modo accaparrarsi le simpatie. Ma è una cosa talmente importante, che ci ritorneremo su.

Concretiamo il nostro pensiero in un esempio.

Ecco un parrocchiano, diciamo anzi una parrocchiana, che è in urto con un membro della squadra: col parroco, supponiamo. E per meglio rinforzare il caso, supponiamo che il punto di vista del parroco sia discutibile. Quella brava persona viene da uno dei vicecurati, per esporgli il caso e per difendere la causa di cui è la vittima. Vi sono per il vicecurato tre possibili atteggiamenti:

1) darle ragione e dare torto al parroco, il che non si deve evidentemente fare;

2) ascoltare a lungo le lamentele (sono sempre lunghe), consolare, cercar di spiegare le ragioni del parroco, senza compromettere sé stesso;

3) compromettersi a fondo, unirsi al giudizio della squadra e non ammettere le ragioni che gli vengono opposte.

Quest'ultimo atteggiamento può sembrare intransigenza. Diciamo tuttavia che, data la mentalità dell'ambiente parrocchiale, e specialmente delle donne, è l'unico atteggiamento da assumere. Bisogna assolutamente rifiutarsi di fare da giudici, se si è richiesti: altrimenti, anche se si spiegano le ragioni dell'altro, va a finire che l'interessata riterrà sempre che non le si dia completamente torto. Accettando d'essere giudici, si rimane tagliati fuori e al di sopra della squadra. Non si deve assolutamente accettare una simpatia fondata sull'antipatia riguardo a un altro membro della squadra. È indispensabile che i fedeli capiscano che il blocco è infrangibile... Noi pensiamo che questa intransigenza, ben lungi dal nuocere al bene generale, lo serva. Essa richiede una grande abnegazione: quella d'addossarsi i torti degli altri e magari, se occorre, l'odiosità d'una decisione che segretamente si biasima. Dopo, il vicecurato vada dal parroco e gli domandi di sistemare le cose. Ma è evidente che si tratta di cosa diversa. Deve essere l'interessato a discutere, a concedere: non un terzo, anche con le migliori intenzioni del mondo.

Dai bei momenti che ho trascorsi in mezzo a voi, mi sembra che la vostra comunità sia molto allegra...

È il risultato d'un altro nostro principio: ricrearsi insieme. In una vita così attiva, ci vogliono momenti di riposo; e questi momenti di riposo devono essere momenti di gioia.

Essersi divertiti insieme non significa certamente aver perduto tempo. Monsignor Dupanloup, nel suo Trattato dell'educazione, dice:
— Quando sentite soffiare nella vostra scuola un vento di critica o di malanimo, approfittate della prima giornata di bel tempo per mandare gli alunni ad una lunga passeggiata. Alla sera, ogni traccia di cattivo umore sarà sparita.

Tra noi, beninteso, non si tratta di malanimo o di malumore, poichè la squadra è ben saldata; ma non siamo tutti un po' bambini? e lo spirito migliore non è quello di famiglia? Ora, ogni famiglia ha le sue feste, le sue birichinate, i suoi piccoli litigi, i suoi piaceri in comune. Essi rappresentano i buoni ricordi, che in seguito fa piacere rievocare. In base a tale spirito, non è inutile che al presbiterio «si faccia un po' di chiasso»: è anzi molto opportuno che lo faccia anche il parroco. Ci sarà anzitutto la festa di ciascun membro della squadra: e non ci si accontenta d'un pranzetto più abbondante, con un po' di fiori, ma sarà veramente un giorno di festa. La sala da pranzo è addobbata: sono stati invitati i migliori amici del «festeggiato». Alle frutta, i più maliziosi cercano di avere in serbo qualche facezia. E perchè non anche qualche scenetta, qualche canto improvvisato? Abbiamo persino avuto qualche proiezione a colori, che rappresentava la vita del «santo», cioè del confratello festeggiato, ecc... Ogni tanto fa furore una bella pellicola: perchè non andremmo a vederla insieme? Oppure c'è da dibattere una questione importante: il tempo è bello: via, inforchiamo le biciclette e andiamo a discutere sull'erba. Un anno siamo giunti a fare per qualche giorno una colonia estiva di vicecurati sotto la direzione del parroco: che bella cornice, le montagne, per elaborare fra due ascensioni il piano di un'annata! Torneremo certamente a farlo.

Noi non siamo puri spiriti. Non dimentichiamolo mai. Anche il nostro corpo e il nostro cuore hanno bisogno di vivere in squadra, di riposare in squadra.

Insomma, voi pensate ad una vita in comune?

Sì, e nel senso più forte della parola. Del resto, non vogliamo con ciò nessuna modalità esteriore di questa vita comune, come se essa esigesse necessariamente nel nostro pensiero la vita religiosa, coi suoi voti di povertà e d'obbedienza, con la sua regola, coi suoi esercizi spirituali, ecc... Ciò che preconizziamo, lo crediamo realizzabile per preti secolari. È indubbiamente richiesto un minimo di comunità fisica: come lavorare insieme, se non ci si vede fuori della chiesa o della sagrestia? Ma noi abbiamo ancora altri scopi: una comunità spirituale. Nella stessa vita  religiosa questa comunità potrebbe non essere realizzata: ed è possibile anche nella vita secolare. «Vivere insieme» significa soprattutto mettersi in armonia con gli altri. Ciascuno ha il proprio temperamento, il proprio carattere: ciascuno ha anche la propria grazia, che non è quella del vicino. Tutto questo è una grande ricchezza. Bisogna scoprire le ricchezze, i valori degli altri, per assimilarseli. Bisogna essere felici che gli altri non siano come noi, che abbiano un valore diverso dal nostro, punti di vista che ci sfuggono, doni particolari che mancano a noi. Quanto più c'è diversità, tanto più è ricca la comunità. Anche i difetti devono essere accettati in tutta semplicità: per lo più essi non sono che il rovescio delle qualità positive. Questo non impedisce l'aiutare il loro proprietario ad emendarsene. Che uno sia un po' turbolento, che metta nella vita comunitaria un po' di rumore o magari anche di disordine, che coi suoi canti disturbi un tantino i compagni in un mattino in cui essi vorrebbero preparare una predica, transeat! ma poi a tavola egli sarà il giovialone che terrà allegri tutti e quello che domani rialzerà il morale abbattuto. Un altro, invece, sembrerà talora esigente, meticoloso nell'ordine che richiede o nelle precisioni che pretende; grazie a lui tutto non va a rotta di collo e a fine d'anno, allorché ci vorranno i conti o ci sarà bisogno di consultare gli archivi, è lui quello che potrà fornire i dati.

Vivere insieme significa per forza avere un ritmo comune. Bisogna scoprire il ritmo della squadra, come essa è composta. Non è sempre facile, perchè quel ritmo è composto dalla velocità dell'uno e dalla lentezza dell'altro, dalla perspicacia di taluni e dallo scrupolo d'un altro; uno solo però di cui si deve tenere conto: piegarsi a questo ritmo (all'incirca quel che succede in una squadra di rematori) vuol dire assicurare il buon andamento della barca. Al parroco, per la maggior parte del tempo, toccherà temperare l'esuberanza e le impazienze degli uni, far valere servigi resi dagli altri. Bisognerà anche che questo cammino in comune sia una ascesa ed un progresso.

E voi volete questa vita comune persino sul piano spirituale?

Soprattutto sul piano spirituale. Noi non siamo solamente una squadra di propagandisti, ma anche una squadra di preti, membri di Cristo Sacerdote, inter mediari fra Dio e gli uomini per la circolazione della vita divina nell'umanità. Questa condizione non potrebbe non richiedere, da parte di coloro che la professano insieme, uno scambio più profondo degli scambi d'organizzazione o di tattica apostolica. Noi dobbiamo fare squadra in pieno soprannaturale, ascendere insieme, prendere a carico di tutta la nostra anima il livello spirituale della squadra, dare agli altri la parte migliore di noi (Dio che abita con noi, con le sfumature della sua grazia) e cercare di trarre profitto dalla parte migliore degli altri. Dobbiamo pregare insieme: non solo con «esercizi» comuni e previsti — sebbene ciò sia possibile ed utile — ma con l'unione dei cuori nel tenore della nostra preghiera. I nostri fratelli d'arme non possono essere assenti dalla nostra preghiera: e come è facile ciò quando il lavoro di ciascuno è conosciuto da tutti, diviso da tutti!

Prendiamo l'orazione: il fatto d'essere uniti, non è una necessaria preparazione all'orazione? La prima condizione per farla bene è che la carità di Cristo sia diffusa in ciascuno dei nostri cuori e li innalzi insieme verso il Padre. Facciamo il conto delle distrazioni che ci assalgono durante l'orazione, e vedremo che in massima sono fatte di piccoli astii, di rancori, di ricordi amari. In una comunità disunita, si potrebbe dire che la maggior parte delle distrazioni è nutrita dalle difficoltà d'adattamento e dagli urti fraterni: una gran parte delle forze spirituali è impiegata per colmare le brecce fatte alla carità. Uniamoci, invece, e l'orazione sarà già liberata da questa preoccupazione. Ma questo è l'aspetto negativo. C'è l'aspetto positivo: se si è preoccupati del livello spirituale della squadra, se ne siamo inquieti come del proprio livello, se si ha cura d'aprirsi totalmente per dare agli altri il meglio di sé stessi, la parte più ricca e più ardente, non si esiterà a comunicare loro i propri argomenti di orazione, i pensieri suggeriti da una certa lettura, da una certa esperienza.

Notiamolo: è forse la cosa più difficile e più rara che vi sia: si fa volentieri la messa in comune delle idee care sul piano intellettuale; ma quello scambio del cuore in cui si dice non solo quel che si pensa, ma anche quel che si sente, in cui si parla non delle difficoltà in generale, ma delle proprie difficoltà, appartiene all'amicizia. E non deve essere amicizia quella di una squadra di preti che vivono la stessa vita soprannaturale e sacerdotale? Per riuscirvi, non bisogna attendere che il vicino abbia cominciato: bisogna che cominciamo noi stessi, che ci affidiamo per primi, senza nemmeno sapere se l'altro si aprirà.

Perchè non fare anche insieme la lettura spirituale, non certo in virtù di un'usanza stereotipata, secondo la quale solo il parroco impone il libro che ha scelto, ma spontaneamente, perchè un membro della squadra ha trovato un bel brano che vuol far conoscere agli altri? Oppure, essendo stato pro posto in anticipo un argomento, ciascuno porta ciò che ha trovato su quell'argomento, e così viene messo in comune tutto quel che ciascuno ha pensato e sentito al riguardo. Questo ci accade abbastanza spesso. C'è un arricchimento maggiore di quello in cui uno solo propone le proprie idee, come nelle comunità dove il superiore «fa la lettura spirituale».

E così per tutti gli esercizi della vita interiore.

Se vegliamo davanti al SS. Sacramento, vegliamo a nome di tutti: e quando c'è da intraprendere una grande offensiva parrocchiale, facciamo insieme la veglia di preghiera davanti al Tabernacolo. Se recitiamo il nostro breviario, sebbene questa recitazione sia individuale, la garantiamo «in coro» coi nostri fratelli, perchè siamo incaricati della lode di Dio. Se celebriamo la messa, la «concelebriamo» in spirito con coloro che hanno missione comune di offrire alla Trinità il sacrificio di Cristo, a nome e a beneficio di questa parrocchia. La messa “pro populo”, che canonicamente incombe al solo parroco, noi la celebriamo spiritualmente ogni giorno, come un elemento di quella messa universale che viene quotidianamente offerta dal sacerdozio cattolico. Se uno di noi ha una difficoltà, gli è possibile attirare spontaneamente i confratelli che incontra a venir a pregare con lui.

La preghiera comune ci darà un grande aiuto. Bisognerebbe che fosse veramente fraterna e che aderisse pienamente a tutta la nostra vita.

Certamente questa vita in squadra deve essere una straordinaria fonte di forza; ma quante rinunce deve portare con sè!

In principio, sì: ed anche lungo la strada... L'ascesi della vita in squadra è discretamente «purificante», come dicono gli autori spirituali. Vivere così presuppone (o genera) un distacco, un'espropriazione, una sottomissione alle esigenze del bene comune, una lotta continua contro gli impeti d'orgoglio, di gelosia, ecc... cose tutte, che fanno soffrire. Bisogna perdere il proprio «io», non cercare il proprio riposo, non tastarsi il polso, non agire con una mentalità da funzionario, rinunciare alla stima che si potrebbe captare solo per sè, rifiutare Io spirito di concorrenza, mettere da parte la preoccupazione di formarsi un regno personale, accettare gli altri e camminare secondo la loro cadenza. Occorre molta semplicità: e voi sapete che non è semplice acquistare la semplicità. Ma se si è entrati di cuore in questa strada, si sbocca rapidamente nella gioia, nella pace; i risultati apostolici si moltiplicano e la vita interiore sale ad un livello assai più elevato. Ascesi, certo; ma ascesi sacerdotale, quella forma di ascesi che ci è propria, e al di là della quale non c'è più bisogno di andare a cercarne altre, che. sarebbero incompatibili col nostro ministero.

Vi sono (ne siamo sicuri) molti giovani preti che desidererebbero fare squadra coi loro confratelli. Quante confidenze abbiamo ricevuto a questo proposito! Sarebbe presuntuoso fare voti che le amministrazioni diocesane, invece di preoccuparsi innanzi tutto di «tappare i buchi» per il cammino di questa o quell'opera, nel fare le nomine, si preoccupassero di formare squadre che s'intendano bene e che lavorino insieme? La cosa è forse più facilmente realizzabile di quanto non sembri. In tutti i casi, sia per i confratelli già entrati nel ministero come per quelli che vi giungeranno, desideriamo ed auguriamo quella grande gioia, quella potenza di lavoro e di conforto che derivano dalla squadra.

Una volta costituita, credete che la squadra possa vivere?

La prima condizione perchè essa viva è che ciascuno, invece di dirsi: «Ah, se gli altri volessero fare squadra!», si dica: «Farò squadra, voglio realizzare la squadra, caricandomi sulle spalle le concessioni che gli altri non hanno ancora avuto nè l'idea nè il coraggio di prendere».

E perchè la squadra sfidi l'abitudine fatta dal tempo e trovi in sè quella continua novità che è una condizione di vita e d'entusiasmo, è importante che tutti, il capo e gli altri, conservino quello che noi chiameremmo volentieri un temperamento «rivoluzionario»: naturalmente, non un temperamento da ribelli, che sarebbe contrario allo spirito di squadra, ma quell'incessante bisogno di ricerca, quella speranza d'un divenire migliore, quella mancanza di soddisfazione della missione compiuta, mediante cui si va continuamente alla ricerca del meglio. Essere rivoluzionari nel senso inteso da noi non vuol dire avere idee nuove che si mettono in pratica lì per lì, per poi lasciarsi stagnare nell'abitudine: vuol dire ripensare incessantemente i problemi, riadattarsi alla mobile realtà, riprendere il cammino verso qualche grande speranza.

Per fare una squadra, bisogna volere insieme, ma soprattutto sperare molto insieme. Questa speranza forma la coesione di tutte le squadre d'esploratori e di missionari: perchè non dovrebbe formare anche la nostra nella grande missione del paese di Francia?

Avete anche parlato di fare squadra con la parrocchia: come intendete ciò?

La squadra sacerdotale non deve essere che il nocciolo, la cellula della squadra parrocchiale. Non vi sarà comunità parrocchiale, se non c'è al centro una comunità sacerdotale; ma questa comunità centrale deve includere tutti gli elementi attivi, tutti gli elementi militanti, sino alla periferia della parrocchia.

Perchè non interessare tutta la parrocchia del proprio cammino? Poichè, in fin dei conti, la parrocchia è costituita dai fedeli assai più che da noi; una volta noi non eravamo in questa parrocchia, e verrà indubbiamente il giorno in cui saremo chiamati ad un altro posto; invece i fedeli vi nascono e vi muoiono Noi non siamo che i loro mandatari, i loro intermediari. Diffidiamo dunque della tendenza che ci farebbe dire incoscientemente: «La parrocchia siamo noi...». Che danno, anche, quando i fedeli confondono la parrocchia con chi la dirige! non pensano che è affare loro, opera loro, e che spetta a loro interessarsene.

Confessiamo, del resto, che sarebbe spesso difficile per taluni partecipare al cammino della parrocchia. Quanti parroci chiedono soltanto che le loro pecorelle siano fedeli alle consegne che essi danno loro: Ma non è così che si formano i caratteri forti, le energie virili di cui la Chiesa ha bisogno.

È evidente che bisogna fare squadra con la parrocchia. E non si tratta per questo di riunire ufficialmente non so quale comitato o quale assemblea, per sottoporre loro bilanci o rendiconti: cosa che per lo più termina con una generale soddisfazione, quando non dà luogo ad assurde critiche che svisano la situazione. Si tratta di adottare al riguardo dei parrocchiani un comportamento che li integri realmente con la vita, con l'andamento della parrocchia. Noi abbiamo dei movimenti di laici: siano i laici ad averne veramente la direzione: essi devono sentirsi lì in un affare di loro spettanza, e non devono tremare od essere costretti a chiedere ogni specie di permessi al parroco, per tutto ciò che non compromette nè la fede, nè i costumi, nè il buon andamento dell'insieme. Lasciamoli liberi d'organizzarsi e di discutere: assumano loro le proprie responsabilità. Quando abbiamo bisogno del loro concorso, parliamo loro come ad adulti, non come a bambini: sollecitiamone l'aiuto, esponiamo le nostre ragioni e i nostri fini, piuttosto che imporre loro i nostri ordini. Ma siano soprattutto portati a parlare spontaneamente, per dirci le loro idee, i loro desideri, le loro lagnanze, le loro critiche e quelle del loro ambiente. Quante volte, nelle riunioni di militanti dei quartieri, abbiamo avuto suggerimenti e consigli! Abituiamoli ad altro che ad incensarci sempre in nostra presenza. Ci sappiano realisti, capaci di accettare un rimprovero: vedano che sappiamo ricevere un'osservazione da parte loro ed ammettere che essi sostengano una posizione opposta alla nostra, senza accusarli di mancarci di riguardo.

Quanto al complesso dei parrocchiani, membri o non membri dei movimenti specializzati, è necessario che ciascuno si senta utile personalmente ed impegnato. In molte delle nostre parrocchie c'è un grossissimo difetto, certamente assai difficile da correggere: quello che l'insieme dei cristiani si scarica, su un piccolo numero di «dirigenti», della cura di rea lizzare il lavoro apostolico. È evidente che vi saranno sempre dei seguaci, le persone «molto devote»; ma bisognerebbe che progressivamente essi si sentissero sempre più (ci si perdoni l'espressione in voga) «interessati all'andamento dell'impresa». Per giungere a ciò, nulla vi è di più dannoso — a parer nostro — di quelle periodiche riunioni di stato maggiore, in cui i capi o i presidenti delle diverse opere, sotto la presidenza del parroco, ricevono da lui consegne che li trasformano in esecutori.

Bisogna capire quale impressione devono ricevere un gruppo di scouts o una sezione giocista, quando il capo scout o il presidente giocista arrivano con un lotto di consegne che devono armonizzare — non si sa come — con l'andamento esatto del gruppo o della sezione. C'è di meglio da fare, per destare il loro interesse e il loro slancio. Le consegne necessarie alla marcia conquistatrice della parrocchia devono essere date in chiesa, allorché tutta l'assemblea cristiana è presente alla messa domenicale e può essere così trascinata a partecipare a quel cammino-marcia. È dal pulpito che bisogna non solo dare le consegne, sempre numerose, ma anche presentare gli obbiettivi, i successi e gl'insuccessi, dire ciò che si aspetta, su che cosa si fa assegnamento, mettere insomma in mostra sotto gli occhi di tutti i parrocchiani la vita parrocchiale. In certi giorni, il miglior sermone del parroco sarà una serie d'avvertimenti, un'occasione di trattare delle operazioni in corso per la realizzazione dell'opera missionaria. Una parrocchia è una immensa «opera», un'immensa famiglia, dove il padre parla con semplicità, dove i figli sono formati a reagire spontaneamente, ad interessarsi ad agire al servizio del bene comune.

È essenziale che questo soffio dal largo — duc in altum  — attraversi tutti i cuori, li unisca, e che in questa atmosfera missionaria tutti, grandi e piccoli, crescano e si sviluppino.