don Pierpaolo Conti
ARMANDO MATTEO Fede “adulta” e ateismo giovanile
Il crescente ateismo giovanile ha da tempo assunto caratteri generazionali. Non si tratta più di qualche caso
isolato di giovane che, celebrata la cresima, si allontana dal mondo ecclesiale per ragioni di aperto o
sotterraneo dissenso rispetto a questo o quell’altro punto della dottrina o della morale cattolica; né le ragioni
della disaffezione giovanile all’universo della fede vanno ricercate nella volontà tipica di chi si trova alle prese
con il proprio cammino di crescita di differenziarsi dall’universo mentale e quindi religioso dei propri genitori
e degli altri adulti della società.
Il punto di rottura è legato piuttosto alla difficoltà della stragrande maggioranza dei giovani ad avvistare un
qualche possibile significato tra quanto rubricato, lungo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto la voce
«cristiano» e la propria ricerca di una risposta il più autenticamente vera alla drammatica e prepotente
questione circa il tipo di persona che, crescendo, si desidera divenire.
Insomma, il difficile rapporto dei giovani con la fede si concentra intorno al fatto per il quale tutto ciò che in
Chiesa si compie per la loro maturazione spirituale non li abilita affatto a individuare una risposta convincente
alla seguente domanda: ma cosa significa essere cristiani, quando si cresce, quando cioè non si è più
bambini? È con questo interrogativo che la comunità credente è oggi chiamata a confrontarsi.
Cuore adulto
A guardare le cose più da vicino, ciò che in realtà l’ateismo giovanile odierno testimonia è precisamente la
divaricazione sempre più netta tra l’esperienza di vita che il cristianesimo prospetta e l’esperienza di vita con
la quale i nostri giovani sono confrontati, a partire dai circoli delle piccole tribù familiari d’appartenenza. In
ragione di ciò, con la cresima si tocca ordinariamente un punto di non ritorno. Il sostanziale fallimento della
celebrazione di tale sacramento registra il fatto che al presente credere alle parole di Gesù e lasciarsi ispirare
da esse non fa più parte dell’ordinario modo di concepire e condurre la vita, quando si cresce, quando si
smette di essere bambini.
Certifica, in sintesi, che la fede cristiana non trova più alcuna collocazione centrale o quanto meno rilevante
nell’immaginario dell’essere adulto contemporaneo. In fondo, è come se i giovani e le giovani ci mostrassero
che la loro fatica di comporre il cristianesimo assimilato in parrocchia con le istruzioni di vita ricevute in
famiglia e nel più ampio raggio della società che frequentano (penso qui in particolare all’esperienza
scolastica) – la loro incredulità, in una parola – ha a che fare propriamente con la testimonianza ricevuta circa
le cose che stanno veramente a cuore ai loro adulti di riferimento e quindi al mondo dell’adulto in quanto
tale. Al quale è naturale che essi aspirino a far parte.
Ebbene, in questo cuore adulto, oggi, c’è posto per tutto: dalla squadra di calcio non a caso detta del «cuore»
all’auto dei sogni, dalla ricerca di sempre maggiore disponibilità di denaro all’ossessiva ricerca di restare
«sempre giovane», dalla possibilità di un esercizio della sessualità e della propria capacità di attrazione
erotica senza più alcun limite biologico sino alla smisurata apertura a tutte le novità che l’apparato
tecnologico mette a disposizione dei consumatori odierni, dalla volontà di non far mancare nulla ai figli al
desiderio di tenerli con sé per sempre. Ecco, in quel cuore, c’è posto per tutto tranne che per l’esperienza
religiosa. Dio, Chiesa, vangelo, peccato, salvezza, preghiera personale, morte, giudizio, paradiso, inferno,
intercessione non fanno più semplicemente parte del lessico familiare che i giovani frequentano, in quanto
non fanno più semplicemente parte di ciò che sta a cuore degli stessi adulti. Ed è così che l’attuale cammino
offerto dalle parrocchie ai giovani perde di incidenza, non essendo più a sua disposizione un retroterra di
condivisione che ne favorirebbe una piena integrazione. Se Dio, preghiera, vangelo, carità non sono
importanti per i padri e per le madri dei giovani, è difficile pensare che essi siano decisivi per questi ultimi in
vista della ricerca attorno a cosa orientare la propria futura esistenza adulta.
D’altro canto, se l’esperienza cristiana è sostanzialmente estranea al mondo degli adulti, al quale i giovani
naturalmente aspirano ad accedere, per questi ultimi liberarsi di quell’esperienza diventa un’urgenza del
tutto comprensibile. Possono in tal modo sancire – con la dismissione della fede cioè – l’uscita da quella fase
della vita cui quest’ultima è ormai quasi esclusivamente assegnata: l’età dei bambini.
Questo è, ad avviso di chi scrive, il vero snodo della questione del rapporto giovani e fede. Tale snodo ora
conduce – dovrebbe condurre la comunità credente – a porsi più di un interrogativo circa la cura che essa
presta esattamente alla fede degli adulti, abbandonando per sempre non solo l’idea di un cittadino
occidentale adulto naturalmente cristiano, ma anche l’idea che il cittadino occidentale adulto sia credente
sebbene non praticante. Il mancato raggiungimento di una fede
«adulta», da parte delle nuove generazioni, trova la sua ragion d’essere allora in un mancato e ancora
largamente mancante investimento pastorale per la fede possibile degli adulti sotto le condizioni culturali e
sociali odierne. È questo il punto a cui i credenti odierni dovrebbero prestare grande attenzione: solo
riuscendo a dare ragione della fede cristiana agli adulti e alle adulte di oggi, sarà possibile farsi carico del
sempre più vasto ateismo giovanile. È la fede degli adulti che genera la fede «adulta» dei giovani. Proviamo
ad approfondire i punti qui accennati.
La prima generazione incredula avanza
Sono trascorsi molti anni da quando chi scrive ebbe sentore che il rapporto delle nuove leve con la fede
cattolica stesse sul punto di una svolta particolarmente significativa. Tali iniziali sensazioni assunsero poi la
forma di una lampante evidenza: quella dei giovani – ovvero la generazione nata dopo il 1980, i cosiddetti
millennials – era «la prima generazione incredula»; venne così alla luce, nel 2010, il libro omonimo.
Il punto critico di rottura nei confronti del cattolicesimo delle precedenti generazioni era rappresentato
proprio dal fatto che la disaffezione alle pratiche di fede si presentava come distintivo di un’intera
generazione e non più di singoli o di una parte minoritaria di essa. Inoltre, c’era ancora da prendere atto che,
dietro quel progressivo allontanarsi dalla regolare frequentazione della messa domenicale, lo scemarsi
dell’interesse per una formazione religiosa che andasse oltre il necessario per ottenere il permesso per
celebrare la cresima e l’abbandono della pratica di lettura della Bibbia e della preghiera personale, emergeva
il vero nodo dell’intero ateismo giovanile.
Si trattava della fatica della generazione nata dopo il 1980 a considerare come rilevante per il personale
cammino di accesso all’età adulta quanto – a proposito di vangelo e di Chiesa – fosse stato appreso durante
gli anni di frequentazione delle parrocchie, degli oratori, delle ore di religione a scuola e delle tante
associazioni e movimenti che compongono il mondo cattolico. Insomma, era in gioco la fatica di un’intera
generazione a trovare risposta convincente alla domanda: cosa significa essere cristiani quando non si è più
bambini? Ed era per questa ragione – si argomentava – che i giovani avevano iniziato a non manifestare più
alcun interesse per le cose che la Chiesa compie e dice, quando parla di fede, e che non avevano più alcuna
remora a chiamarsi fuori dalla tribù cattolica.
Come accennato, sono ormai passati più di dieci anni da quando tutto questo ha cominciato a prendere forma
nella testa di chi scrive. Nel frattempo, ciò che è mutato non è il paesaggio della religiosità giovanile, quanto
piuttosto la conferma empirica che quel paesaggio è davvero mutato. Numerose, infatti, sono state negli
ultimi anni le indagini sociologiche a livello nazionale e internazionale che offrono un sostegno a ciò che
l’espressione «prima generazione incredula» intendeva e ancora oggi intende porre all’attenzione della gente
di Chiesa. Non sapendo come comporre ciò che si è appresso circa il cristianesimo durante l’infanzia e
l’adolescenza con la propria urgenza di crescita adulta, i giovani stanno imparando a vivere senza il Dio
presentato dal vangelo e senza l’esperienza di Chiesa che ne discende.
Piccole atee crescono
Ma non c’è solo questo aspetto generale della recente disaffezione del mondo giovanile alla fede cattolica.
Vale la pena considerarne almeno altri due. Il primo – davvero sorprendente, rispetto agli immaginari
tradizionali del paesaggio cattolico di ogni latitudine del nostro pianeta – è quello rappresentato dall’avanzata
dell’ateismo giovanile femminile. Si potrebbe davvero affermare che la specificità della prima generazione
incredula è data proprio dal fatto che piccole atee crescono.
Le ragazze e le giovani nate dopo il 1980, in termini generali, non mostrano quasi più alcuna sostanziale
differenza in ordine al loro rapporto con l’universo della Chiesa cattolica rispetto ai loro coetanei di sesso
maschile. A parte una qualche propensione in più per la preghiera personale, tutti gli altri parametri che
sociologicamente vengono utilizzati per sondare un’esperienza di fede trovano l’intera generazione dei
millennials assestata verso una decisa disaffezione rispetto alle generazioni precedenti. Ciò si impone in
modo del tutto particolare proprio lungo l’asse rappresentato dalle ragazze e dalle giovani. Si deve anzi
aggiungere che è proprio una tale differenza «intragenere» a marcare l’attuale paesaggio cattolico. Per questo
le nuove generazioni di donne vanno in Chiesa, affermano di credere e di pregare, si riconoscono nei valori
del cattolicesimo più o meno nella stessa misura dei loro coetanei maschi.
Chiunque abbia anche la minima confidenza con gli ambienti ecclesiali sa bene quanto in essi sia pregnante
e massiccia la presenza di donne che partecipano ai riti, che pregano, che si impegnano nel catechismo e
nelle diverse attività di volontariato, senza dimenticare l’infaticabile e preziosissima opera svolta dalle suore.
Proprio queste ultime sono ora la parte di Chiesa che sta pagando il prezzo più alto dell’avvento della prima
generazione incredula, essendo sempre di meno e sempre più anziane.
La disponibilità delle giovani donne a intraprendere la strada di una vita consacrata è, detto fuori dai denti,
ai minimi storici. Non solo. Quasi tutte le parrocchie cattoliche oggi faticano non poco a trovare giovani donne
disposte a impegnarsi nel catechismo, nelle attività di volontariato, nei diversi servizi che il mantenimento di
una parrocchia o di un oratorio comportano. Anche in questo caso la longevità delle attuali catechiste e delle
signore «impegnate», come si suole dire nella lingua dei preti, permette di non cogliere in tutta la serietà la
questione che l’allontanamento delle giovani comporta sul livello così elementare, ma non per questo meno
decisivo, della disponibilità a farsi carico – e gratuitamente – delle attività della Chiesa, non legate al ministero
del prete.
Il dato è dunque particolarmente significativo e in una certa misura può essere registrato anche nelle realtà
ecclesiali di più recente fondazione. Pensiamo qui all’Africa, all’America Latina e all’India. Se è certamente
vero che in questi luoghi la presenza maggiore nella Chiesa è assicurata proprio dalla componente femminile
della popolazione, è altrettanto vero che, non appena queste donne inizino un percorso lavorativo,
diminuisce radicalmente la loro disponibilità – e forse anche l’interesse – per la partecipazione alla vita della
comunità. Non bisogna poi dimenticare che è proprio l’ambito lavorativo quello che vede, nei contesti di
antica presenza cattolica, la popolazione femminile giovane più preparata e disponibile al cambiamento e
all’innovazione rispetto a quella maschile.
Il fatto che siano soprattutto le giovani donne ad aver impresso un carattere generazionale all’odierno
ateismo giovanile riporta la nostra riflessione alla questione generale già indicata circa l’ateismo giovanile. E
la questione è presto nominata: in quale misura e sotto quali condizioni è compatibile la fede nel Dio di Gesù
con le nuove costellazioni dell’umano che governano la vita quotidiana contemporanea e che trovano proprio
nell’attuale condizione della donna il loro più chiaro riscontro?
Lo smartphone val bene una messa
Il secondo dato che contraddistingue l’odierna relazione delle nuove generazioni con la fede prende forma
dal rilievo per il quale, più recenti sono le indagini che a ogni livello nazionale e internazionale verificano il
rapporto delle nuove generazioni con l’esperienza della fede, più aumenta la quota di giovani che si
dichiarano del tutto fuori dal mondo della religione senza «se» e senza «ma». Attraversando le indagini
effettuate sulla religiosità giovanile negli ultimi dieci anni in linea diacronica, si può agevolmente vedere come
quella che possiamo definire la quota di giovani che con convinzione affermano di non avere alcun interesse
per la religione non solo sia in costante crescita, ma che questa crescita abbia carattere esponenziale.
Una possibile interpretazione di questo dato è quella per la quale la fetta «più giovane» dei giovani – quella
che qualcuno ha già ribattezzato generazione z o generazione della rete, riferendosi ai nati dopo il 1995 –
acceleri tutti i segnali di disaffezione alla fede già ben presenti e marcati nell’attuale quota dei millennials
avviati ora all’ingresso nell’età adulta, in breve nei giovani «meno giovani». Insomma, soprattutto gli attuali
adolescenti e ovviamente le attuali adolescenti esprimono ancora meno interesse per la religione di coloro
che li hanno appena preceduti!
Questa rilevazione in progress conferma che la fede sta diventando sempre più qualcosa dei bambini e delle
bambine. Più radicalmente, diventa un affare «da bambini», legato cioè proprio a quel modo di immaginare
e vivere infantilmente il mondo che poi entra in crisi con l’ingresso dei piccoli nella fase adolescenziale.
Lentamente, ma profondamente, la fede subisce così una profonda riscrittura.
In un tale mondo «bambino» si crede a Gesù e alla «Madonnina» allo stesso modo in cui si presta fiducia alla
presenza e attività sommamente importanti di Babbo Natale e della Befana; in un tale mondo si prega con la
stessa disponibilità con cui si gioca, e si partecipa alla messa allo stesso modo in cui si vede la televisione
insieme con i nonni o la babysitter di turno. Lo stesso catechismo, fatto di disegni, musiche, balli e giochi non
si discosta più di tanto dalle mille attività che caratterizzano l’attuale scuola di base.
Ma c’è di più, in verità. Si aggiunga infatti che l’età media dei catechisti spesso ricorda più quella della nonna
o del nonno che quella della mamma o almeno quella del papà; si aggiunga che oggi l’unica maniera
riconosciuta universalmente valida dalle famiglie per richiedere e ottenere dai piccoli un qualsiasi impegno è
quella che passa attraverso la promessa di una lauta ricompensa; si aggiunga ancora la naturale proiezione
in avanti che caratterizza l’essere umano almeno in questo stadio della sua esistenza, e si avrà che, più cresce
nel bimbo il desiderio di diventare grande, maggiore sarà la consapevolezza in lui di dover abbandonare tutto
ciò che richiama il mondo dei piccoli.
Ed ecco infine il punto di condensazione del ragionamento: poiché la prima forma di «adultità» è oggi
rappresentata dal possesso personale di un cellulare, quest’ultimo viene quasi sempre promesso come regalo
per la messa di prima comunione. E allora, per quanto noioso possa a un certo punto diventare il catechismo,
per quanto l’aria che si respira anche di domenica durante la celebrazione della messa quasi per nulla richiami
ciò che potrebbe essere un giorno festivo, per quanto costi un po’ alzarsi la mattina di domenica per andare
in parrocchia, tutto ciò non pesa quasi nulla se paragonato alla conquista di quel pezzo di mondo adulto che
lo smartphone promesso per la messa di prima comunione rappresenta. Ed è così che il mondo della fede si
configura come del tutto facente parte di ciò che i bambini fanno quando sono bambini e finché sono
bambini.
Certo, il tono di queste ultime righe è volutamente ed esageratamente tragicomico; eppure la questione che
intende rilevare è particolarmente decisiva: la fede è una faccenda ritenuta valida solamente per i bambini e
finché si è bambini; la fede non abita più gli spazi del mondo adulto e per questo coloro che si avventurano
già ora nel terreno dell’adolescenza (alla lettera «tempo per diventare adulti») esprimono un crescente
disinteresse per la religione, per le questioni che essa mette in campo e per la sua proposta di vita.
La domanda che sorge immediata è quella relativa alle cause di un così radicale mutamento che gli
adolescenti e i giovani annunciano sul terreno dell’esperienza religiosa. Insomma, come è accaduto che la
fede sia diventata una cosa specifica solo per bambini e finché si è bambini, con l’eccezione forse di quell’altra
fascia d’età – quella dei nonni e delle nonne – nella quale in certa misura si sperimenta pure una qualche
forma di rimbambimento?
Eclissi del cristianesimo domestico
La risposta alle domande sin qui poste è netta: la cinghia di trasmissione della fede si è rotta. Sì, la cinghia
della trasmissione generazionale della fede si è progressivamente sfilacciata e quindi definitivamente
spezzata. Piaccia o meno, gli adulti appartenenti alle due generazioni che in modo e peso diverso dominano
oggi il mondo – quelli della generazione dei boomers (1946-1964) e quelli appartenenti alla generazione x
(1964-1970) – non hanno favorito una qualche forma di testimonianza circa l’importanza di credere, pregare,
leggere qualche testo sacro, il Vangelo per esempio, nei confronti della loro prole. E questo non perché vi sia
stato qualcosa come una decisione collettiva del ceto adulto contro il mondo della religione; negli adulti
stessi, piuttosto, è la stessa la fede – l’esperienza concreta dell’aver fede – che è scivolata lentamente via,
marginalizzata, rimossa, cancellata.
Le indagini parlano chiaro. Nelle famiglie, e in ciò che spesso sopravvive o si reinventa delle famiglie, non vi
è più spazio per la preghiera, per la lettura della Bibbia e infine per discussioni che possano in qualche modo
pur lontanamente sfiorare le grandi domande dell’esistenza umana, dal significato delle diverse età della vita
alla ricerca di ciò che potrebbe permettere la coltivazione efficace della propria interiorità, dal senso
dell’ineluttabile necessità di dover morire a quello della radicale precarietà della nostra specie.
Sono anni ormai che i ragazzi e i giovani che vengono al mondo non vedono più negli occhi di mamma e di
papà alcuna traccia della presenza di Dio, non ne vedono più i capi raccolti in un momento di devota
concentrazione, non ne vedono più le mani sfogliare le pagine della Bibbia, non ne vedono più i piedi
indirizzarsi verso la chiesa, alla domenica, a Natale o a Pasqua almeno, non ne sentono più le labbra innalzare
grida di dolore o inni di riconoscenza verso un Padre che dai cieli provvederebbe ai figli in terra, e infine non
ne sentono più quelle stesse labbra invocare una qualche divina benedizione in occasione di ricorrenze,
genetliaci, anniversari. È proprio quella degli adulti, in verità, una vita che ha definitivamente imparato a
vivere senza Dio e senza Chiesa, con l’effetto di codice che è la vita adulta in se stessa a essere sempre più
immaginata e definita a partire da queste due assenze.
Certo, la fede è e rimane per tutti, giovani compresi, una decisione personale, ma è e rimane una decisione
che respira e si ispira all’aria nella quale si vive. Gli umani non imparano la vita da soli, non godono di un
apparato istintuale completo, non sono automaticamente abilitati al mestiere di vivere. Gli umani imparano
guardando e guardando imparano: così nasce la possibilità per ogni cucciolo d’uomo di dare un valore alle
cose del mondo e al mondo delle cose nella sua interezza. E se è vero che gli occhi di mamma e di papà, le
mani e i piedi di mamma e di papà, le parole e i «ritornelli» di mamma e di papà sono la prima mappa valoriale
del mondo, nella stessa misura quegli occhi, quelle mani, quei piedi, quelle parole, quei «ritornelli» sono la
prima mappa teologica dell’universo. Sono, in una parola, la prima e fondativa cattedra di ciò che ciascuno,
crescendo, deciderà di assumere come metro di misura della propria appartenenza alla specie umana.
L’ateismo giovanile odierno si nutre sostanzialmente della morte del cristianesimo domestico e familiare,
dell’eclissi di Dio negli occhi paterni e materni, del venire meno della loro devozione intima, del loro ritiro
dalla partecipazione alla vita ecclesiale, di quelle scialbe discussioni – che popolano le serate e i giorni di festa
delle piccole tribù familiari – intorno a ciò che veramente conta in un’esistenza umana degna di essere
vissuta.
Inutile girarci intorno: tra le cose che veramente contano nell’esistenza degli adulti, non c’è spazio per Dio,
per la Chiesa, per il vangelo, per la preghiera, per la devozione. Ciò che davvero conta per loro è ormai quasi
solo la propria posizione socioeconomica, la propria rincorsa a essere sempre in forma a dispetto della carta
di identità e infine la propria tifoseria sportiva. Chi non vede, infatti, che in molte famiglie sia proprio l’orario
in cui gioca la propria squadra o quello in cui si disputa una gara di questo o di quel torneo automobilistico o
motociclistico a dettare l’agenda del fu «giorno del Signore»?
La cinghia di trasmissione della fede si è spezzata così senza drammi e senza quasi più alcun rimpianto. Nella
misura in cui Dio è gradualmente scomparso dall’orizzonte della coscienza degli adulti, nati tra la metà degli
anni quaranta e la fine degli anni settanta del secolo scorso, nella stessa misura emerge una figura di adulto
sempre più contraddistinto da un orizzonte di vita in cui Dio non ha più semplicemente posto. Ed è la figura
dell’adulto a cui giocoforza i giovani nel loro essere in crescita fanno riferimento. Insomma, per i nostri giovani
è praticamente impossibile discernere cosa significhi credere quando non sono più bambini, proprio perché
i termini «adulto» e «credente», «adulto» e «cristiano», nelle famiglie non si incontrano e incrociano più. I
giovani non sanno semplicemente più cosa sia una fede «adulta»!
Conclusione
Ed è per questa ragione che, non appena quegli stessi giovani pongono i primi passi fuori dall’adolescenza e
dalla prima giovinezza – insomma intorno all’età in cui si frequentano le scuole secondarie –, basta loro un
nonnulla per abbandonare la pratica (infantile) della fede: una lezione di filosofia kantiana o postkantiana,
una discussione intorno all’evoluzione, durante un’ora di biologia, un evento luttuoso, una delusione
d’amore, l’ascolto di qualche divulgatore scientifico e così via… Esperienze come queste non possono non
confermare in loro quanto sino a quel momento avevano già maturato dentro, e cioè che la fede non è una
cosa da adulti. Che la fede non serve, quando diventi grande. Che non c’è alcuna fede «adulta».
Queste considerazioni ci riportano di nuovo al tema decisivo della nostra riflessione: è tempo di farsi carico
della fede degli adulti, provando a riscrivere una grammatica della fede in grado di suscitare proprio negli
adulti un rinnovato desiderio di Dio e di Chiesa. È sempre a loro che i giovani guarderanno per capire se la
fede fa parte o meno dell’abitazione umana del mondo! Per sapere come quale forma abbia una fede
«adulta»
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