2 - Lo Spirito di squadra

Tutte queste riforme di struttura, destinate a trasformare la parrocchia e a renderla missionaria, non superano le forze di un parroco, per ardito e coraggioso che sia?

Certamente: perciò per giungere allo scopo, facciamo assegnamento non su un uomo, ma sull'intera squadra sacerdotale. Diremmo anzi volentieri che bisogna cominciare dalla costituzione di questa squadra, perchè essa è la condizione sine qua non di tutto il resto.

Intendete indubbiamente dire che i membri del clero devono coordinare i loro sforzi, vero?

Da principio, sì. «Squadra parrocchiale» significa innanzitutto «squadra sacerdotale»; ma noi andiamo più lontano e pensiamo che il clero deve fare squadra con tutti gli elementi vivi e conquistatori della parrocchia, per condurre un'offensiva costante, sempre in movimento, nella quale nessun elemento militante è trascurato.

Tuttavia, come voi pensate, il clero non può fare squadra coi laici, se prima non costituisce « un blocco ». Lì è la chiave di volta di tutto l'edificio. Nulla avremmo noi fatto in questa parrocchia, se non fossimo stati uniti come le dita- d'una mano. E se anche ciascuno di noi avesse ottenuto apprezzabili risultati nel suo proprio dominio, non avremmo nessuna fiducia nell'avvenire. Quel che ci dà fiducia è che niente di ciò che qui è stato fatto è opera di un solo fra noi, ma che tutto, in certo qual modo, è stato fatto da tutti.

Ci troviamo di fronte ad un lavoro troppo ponderoso, per pensare di condurlo a buon fine in altro modo che in squadra. L'opera da abbattere è gigantesca e straripa su noi da tutte le parti. Se si paragona lo spiegamento del paganesimo contemporaneo con lo spiegamento degli eserciti tedeschi sul nostro paese nel 1940, come pensare a frenarlo «colmando delle sacche» qua o là, in ordine disperso? Ci vuole una controffensiva organizzata, che utilizzi tutte le armi secondo un piano costantemente messo a punto. Se lavoriamo in ordine disperso, siamo battuti in anticipo: registriamo cioè successi locali che ci illudono, mentre l'insieme del fronte spirituale resta in mano al nemico. Per riuscire, bisogna che nessuno faccia banda a parte; ma che tutti lavorino in comune, su un piano elaborato in comune, come diremo meglio fra poco. E del resto, è l'unico mezzo per catalizzare i «refrattari». Potete immaginare che all'inizio di uno sforzo come il nostro, da parte dei laici «parrocchiani» (e specialmente delle donne) non si incontrano soltanto benedizioni ed incoraggiamenti! Ci sono dovunque persone cui non piace essere urtate e che sarebbero troppo felici di veder fallire le nuove formule, per conservare molto saggiamente le antiche.

Da poco tempo cercavamo di rendere più vive le nostre funzioni e di far partecipare tutti alla preghiera in comune, quando la signora X venne a fare visita al parroco, per dirgli:
— In verità, quando don T dirige la messa, non si è più tranquilli e non si può più pregare.
Sarebbe bastato un sorrisetto d'approvazione o di commiserazione da parte del parroco, perchè la buona signora non solo pensasse di trovare un alleato, ma andasse ancora a portare la buona parola a tutti i malcontenti.
— II parroco è costretto a tollerare cose che non può impedire.
Ma il parroco le rispose:
— Oh, signora! A me piace moltissimo il modo di fare di don T: son io a volere che egli faccia così e al presbiterio siamo tutti della stessa idea.
È evidente che il tentativo di reazione venne senz'altro eliminato...

Quante occasioni ci sarebbero, perchè ogni vicecurato possa trovare una cerchia «sua» e costituirsi un regno d'adoratori o d'adoratrici! Nel corso di un anno, durante un ministero in comune, s'incontrano molte anime che credono di non essere abbastanza comprese dall'uno o dall'altro, o che hanno soltanto bisogno di un conforto particolare e chiedono unicamente di lasciarsi assoldare da chi le desidererà. Minacciano così di creare non il partito (sarebbe dire troppo), ma il gruppo d'amici del parroco, quello del vicecurato, o del tal altro, e via di seguito. Ma se ogni volta che un parrocchiano, o una parrocchiana, vuole tentare di mettere così il dito «fra l'albero e la scorza», e sente che non c'è presa: se capisce inoltre che c'è non solamente una fredda ed ascetica volontà di non permettere alcun mutamento, ma anche un entusiasmo d'azione in comune, un'ammirazione spontanea e inesauribile per tutta la squadra sacerdotale, il suo braccio ricadrà disarmato. E quante mani, che si sarebbero prestate ad una piccola cerchia, si apriranno più largamente per il grande cerchio della parrocchia!

In quest'atmosfera, ciascuno può lavorare. È sicuro di non essere smentito, sicuro che nessuno lo colpirà alle spalle, che una responsabilità da lui assunta sarà assunta anche da tutti gli altri, che i suoi errori di tattica saranno giudicati, e spiegati con tanta benevolenza, con tanto affetto fraterno a chi non li ha capiti o a chi ne è rimasto ferito (salvo poi a dirgli a tu per tu: «Mio caro, credo che abbiate sbagliato...», che nulla ricadrà su di lui.

Tutto questo è una garanzia di forza, di sicurezza, e dà origine alla fiducia nell'azione. La vita in squadra rappresenta un appoggio spirituale e ci mantiene nella gioia. Quale prete, isolato nel suo settore, non conosce un giorno o l'altro lo scoraggiamento? Costretto a pensare da solo la propria azione, esposto alla contraddizione ed alla critica, dato che ciascuno dei confratelli ha «il proprio lavoro» come egli ha il suo, e vedendo talora nascere rivalità fra le sue opere e le altre opere della parrocchia, di fronte agli smacchi arrischia di chiudersi nel suo astio e di perdere lo slancio.

Quando invece il lavoro di uno è il lavoro di tutti, questo pericolo è eliminato. Si ha la confortante impressione d'appartenere ad un organismo ben vivente, nel quale ogni sforzo ha la sua efficacia. E poi, c'è quell'allenamento quasi necessario dell'ambiente, della gioia comune. Anche se la mattinata è stata dura, anche se in serata ci sono state molte noie, o contrarietà o preoccupazioni, quando si arriva a pranzo o a cena in mezzo agli altri tutti allegri, come resistere al riposo della letizia fraterna? Non tutti sono contemporaneamente di cattivo umore; se uno è triste, lo notano subito:
— Ebbene, che cosa c'è? ... tutto qui? ... ma voi esagerate!... vi hanno detto questo?... ma a me, invece, hanno parlato così...

Il compito del confratello è troppo gravoso?
— Niente paura! Vi aiuteremo.

Ed anche il cappellano incaricato della cappella di soccorso, laggiù, in piena zona (un lavoro tanto ingrato!) si sente sostenuto durante il giorno dal pensiero che alla sera ritroverà la fraterna e gioconda atmosfera del presbiterio. Si può persino dire che, in capo ad un certo tempo, si giunge a pensare e a reagire in squadra e con la squadra in maniera tale che i dati particolari del temperamento di ciascuno sono trascinati dalla corrente. E poichè una tradizione vuole che la squadra sia allegra, sempre allegra, o almeno sempre forte, si finisce per passare stagioni ed anni interi senza mai provare il senso dell'abbattimento.

Questa fraternità raggiunge — su un piano più elevato e in modo superiore — quella che si è conosciuta quando si era giovanotti, nel tempo che volentieri si chiama «bello». Fra noi, è sempre bel tempo. La gioia non fa mai difetto, sotto tutti gli aspetti. Notate che questa condizione di spirito ha già di per sè un risultato apostolico: trapassa, nostro malgrado, i muri del presbiterio. Ci diceva un parrocchiano:

— Si viene volentieri qui da voi, non foss'altro per il piacere di vedere come v'intendete bene fra voi.

Comunque, noi attribuiamo a questa causa la moltiplicazione delle vocazioni sacerdotali nella nostra parrocchia. Di dove verrebbe, dato che abbiamo messo il rallentatore alle opere, se non da quell'impressione di felicità, da quell'atmosfera di gioia che si respira intorno ai preti della parrocchia?... E' la realizzazione del «quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum», già cantato dal salmista. Non sarebbe anche la grazia promessa da Nostro Signore: «Quando sarete parecchi riuniti in mio nome, io sarò in mezzo a voi? ...». «In nome di Cristo» significa senza dubbio essere uniti dalla preghiera: ma non è anche, e forse più ancora, essere uniti dalla carità vera, effettiva, vissuta? Non sarebbe quest'unione la grande causa d'efficienza per il ministero, la grande sorgente di grazia, poichè Gesù promette d'essere fra noi, e quindi di prendere a Suo carico il lavoro?
— Siamo ben costretti ad intenderci fra militanti, poichè i nostri preti s'intendono così bene diceva ancora una militante ad un prete di passaggio che l'interrogava sul progresso dell'azione cattolica nella parrocchia.

Ma come concepite questo lavoro in squadra?

Fate bene a ritornare sulla parola «lavoro»: infatti, una squadra sacerdotale non è soltanto la riunione dei preti che vivono insieme e che vanno pienamente d'accordo. Questo non basterebbe: si tratta di molto di più.

Fare squadra significa volere insieme, pensare insieme, lavorare insieme, salire insieme, correggere le prove insieme, compromettersi insieme, rallegrarsi insieme.

Ecco un programma che ha parecchie parti. Che cosa intendete per «volere insieme»?

Bisogna anzitutto essere ben d'accordo su un certo numero di principi che costituiranno non un «metodo», ma un punto di vista, un insieme di «reagenti» comuni. Tocca naturalmente al caposquadra formare questo fondo comune, facendo adottare da tutti, i principi direttivi d'azione che egli preferisce e che sosterranno le discussioni. Il che non significa che i vicecurati non avranno da presentare i loro punti di vista, sin dall'inizio: ed ancor meno che il bagaglio non sarà modificato strada facendo. È però necessario sentirsi ben d'accordo subito ed imbarcarsi in comune per una stessa direzione.

Noi, per esempio, abbiamo cominciato col leggere insieme il libretto «All'indietro», pubblicato dal Rev. Padre du Passage: e possiamo dire che vi abbiamo trovato una dottrina di base. Poi, per meglio conoscere il problema operaio e quella massa alla quale ci attacchiamo, abbiamo letto «L'acciaio», un libro d'ispirazione socialista, ma d'un sincero realismo. Strada facendo, abbiamo letto alcuni romanzi di Van der Meersch. È probabile che, se «Francia, paese di missione» fosse uscito allora, non avremmo avuto bisogno di leggere molti altri libri... Per alimentare la fiamma, ed anche per amenità, decoriamo la stanza da pranzo con sentenze e con formule che aiutano a creare uno spirito comune; per esempio:
— Consideriamo nulla tutto ciò che abbiamo fatto sinora.
Oppure:
— Vale meglio morire giovane estenuato che vecchio ammuffito.
O questo estratto d'una lettera di san Francesco di Sales:
— Il Papa è ben lieto che l'abitudine autorizzi certe cose che non può Egli stesso autorizzare, per via delle conseguenze.
O ancora, queste parole attribuite a Pio XI:
— Noi amiamo tanto le tradizioni, che non esitiamo a crearne di nuove, ecc.

Se il capo della squadra sa anche invitare a tavola uomini che abbiano studiato i problemi popolari, farà presto a dare alla sua squadra quello spirito comune, quella dottrina comune che si elabora coi contatti come con le letture: e la tavola del presbiterio diventerà ben presto un focolare di pensiero, invece d'essere semplicemente un convegno di facezie. Così la squadra ha un'anima, un dinamismo, e può accingersi al lavoro.

Bisogna allora non solo che tutti abbiano dato la loro adesione di principio, ma che ciascuno capisca bene che egli occupa ed occuperà un posto necessario nel lavoro: bisogna che nessuno domandi, nè a sè nè agli altri, se si è utili a qualche cosa: che non si facciano confronti tra il proprio pensiero, il proprio lavoro, i propri risultati, e quelli degli altri; ma che si comprenda che tutti gli sforzi si perderanno — o meglio, si realizzeranno — nel medesimo risultato. Non è forse necessario essere d'accordo su un obbiettivo particolare preciso. Quale scopo esatto volete avere, arrivando in una parrocchia, se non quello di convertirla e di farvi del bene? Teorico, utopista, colui che all'inizio del suo ministero si facesse in anticipo un piano di teoria per parecchi anni!... Il primo anno — metà per ridere, metà sul serio — dicevamo: «Noi facciamo un piano quinquennale». Ma questo significava soltanto: «Desideriamo lavorare insieme almeno cinque anni, e durante questo tempo vogliamo fare squadra a qualunque costo».

Gli obbiettivi particolari si devono guardare non con un solo paio d'occhi, ma con tanti quanti sono i preti: devono essere pensati non da una sola mente, ma da tre, da quattro, da cinque. Abbiamo deciso una volta per tutte di voler avere un medesimo scopo, visto con chiarezza e desiderato con passione. Rifiutiamo di crearci scopi personali, limitati a noi, ciascuno in particolare. Vogliamo pensare tutti insieme il problema di tutto l'insieme, cioè di tutta la parrocchia. Nessuno cerca di camminare staccato dagli altri. Niente «scompartimenti» fra i membri della squadra: è la regola.

Uno scoglio costante del ministero parrocchiale è che ciascuno, chiuso nella propria opera, o in più opere, si ritiene l'unico capace di conoscerla a fondo. Là dove non sono assiti e dove tutte le specialità s'incontrano e si sostengono su ciascun settore territoriale, a nessuno viene l'idea di lagnarsi perchè gli altri «ficcano il naso negli affari suoi»... Badiamo a non esagerare in niente: questo non vuol dire che il prete incaricato dei fanciulli debba sapere a memoria i nomi di tutte le bambine, e viceversa. Ciascuno è padrone e indipendente; ma tanto più indipendente nel suo dominio in quanto è ben inteso che non si rivendica nè padronanza, nè indipendenza, nè dominio, e che le attribuzioni particolari non sono che elementi dell'opera comune.

L'unione è ancor più nella volontà che nelle occupazioni, le quali dividono necessariamente il tempo e differenziano le attività.

Questa volontà comune deve incontrare non pochi ostacoli nelle realizzazioni... particolari.

Ne incontrerebbe infatti, se non l'applicassimo in primo luogo a «pensare insieme» il nostro lavoro.

Abbiamo detto che bisogna guardare con tutti gli occhi lo scopo da raggiungere e che tutte le menti devono cercare il modo di arrivarvi. E realmente, se si ammette a priori che solo il parroco ha stato di grazia per vedere tutto, per pensare tutto, per prevedere tutto, per dirigere tutto, e che i collaboratori sono solamente manovali o esecutori dei suoi ordini, non è più il caso di parlare di lavoro di squadra. Se si vuole invece che tutti si interessino e si appassionino del lavoro, bisogna che tutti siano chiamati a pensare insieme i problemi, a dare le loro idee...

Ecco dunque la squadra riunita per elaborare un piano di lavoro. Non importa se la questione sia stata sollevata dal capo della squadra o da un altro: se viene presentata una questione, se viene esposto un problema, se ne discute insieme. Ciascuno parla liberamente, spontaneamente, con tutta la naturale passione o coll'abituale riserbo; espone il concetto che si è fatto. Le soluzioni vengono cercate insieme. Ma qui interviene una seconda regola della squadra, regola che deriva da ciò che abbiamo chiamato «l'ascesi sacerdotale»: non preoccuparsi di avere ragione, non rifiutare di avere torto. È chiaro che, se ciascuno si preoccupa anzitutto di far trionfare le proprie idee, non ci si intenderà mai. Tutte le idee hanno il diritto ed anche il dovere, d'essere gettate in tavola: «tutte le idee, anche le più ridicole, hanno il diritto di venire alla luce». Quando però queste idee sono state lanciate, diventano di dominio comune: devono quindi sottostare alla comune sorte di critiche, di apprezzamenti, d'opposizione, d'adozione o di rifiuto, senza che si tratti di sapere donde vengano. Così, fra poco, quando verrà il momento di passare all'azione, non sarà il caso di affaticarsi di più perchè viene applicata la propria idea: come non si trionferà nella prossima riunione, proclamando «L'avevo detto, io!» se l'idea del vicino ha avuto una brutta riuscita. No, noi non abbiamo parecchi pensieri, ma un unico ed uguale pensiero, ricco del contributo di tutte le menti.

Da noi, al principio, occorsero molte adunanze ben precise, ben regolate, nelle quali ciascuno metteva in comune il suo punto di vista. Poi, con tutta naturalezza, il pensiero diventò sempre più comunitario. Nel corso di giorni e di settimane, a tavola, in ogni incontro, la squadra solleva e risolve le questioni che sorgono. All'inizio di ogni settimana c'è un'adunanza, per prevedere le imminenti eventualità; ma lo spirito lavora in comune, naturalmente... Questa comunanza di squadra conclude persino in strani risultati; ci capita in certi momenti di non poter più pensare da soli; e spontaneamente, quando un laico ci espone una questione importante, chiediamo il tempo di riflettere, con l'intenzione di parlarne ai confratelli. I parrocchiani non si stupiscono affatto, udendo dire dal parroco stesso:
— Ne parlerò ai miei aiutanti.

Che cosa diventa allora l'autorità? Quale parte sostiene il parroco, se deve solo più essere «uno di essi»? Bisognerebbe essere ciechi, per non capire che la sua posizione stessa lo mette al centro dei problemi e fa sì che spesso sia egli il primo a sollevarli. Tocca a lui esprimere il suo concetto, le sue vedute generali, la sua concezione della parrocchia: tutto ciò servirà come linea direttiva, come orientamento generale. Tocca a lui fissare i primi principi, comunicare le scoperte della sua esperienza.

E la saggezza esige che i vicecurati vi si uniscano. E quando la discussione si prolunga e minaccia di diventare eterna, è ancora la sua autorità spesso fondata sulla sua esperienza quella che tronca il dibattito. Non crediate che lo spirito di squadra sopprima l'obbedienza: la presuppone, invece. Il primo nemico della libertà non è l'uguaglianza? ma in luogo di un'obbedienza d'obbligo, di costrizione, è un'obbedienza affatto spontanea, che si rivolge maggiormente alle esigenze del bene comune espresse dal capo che non ad un'autorità che vorrebbe organizzare tutto in virtù della sua volontà personale. Non ci sarebbe, del resto, da ricercare un principio d'obbedienza nella comunità stessa, in modo che il primo costretto a questa obbedienza sarebbe il capo, il quale più d'ogni altro ha il compito di promuovere il bene della comunità, e quindi di sottoporvisi per primo? Così si obbedisce nella gioia, il che è la condizione perchè tutto proceda bene. Non per questo si perde la propria personalità, ma la si mette totalmente al servizio del bene. Adottando, facendo proprie le vedute generali del parroco, i grandi principi del suo apostolato parrocchiale, i collaboratori hanno potuto, all’inizio. fare tacere qualche preferenza particolare. Parecchie strade possono condurre alla stessa mèta: se n'è parlato insieme, i collaboratori hanno cercato di capire il loro parroco e di capirsi fra loro, ed ormai tutte le soluzioni saranno cercate su una medesima linea. Non è detto che, in seguito, il vicecurato diventato parroco non lavori in un senso diverso: è probabile, anzi, che lo faccia, più ricco insieme dell'esperienza acquistata e d'un metodo che corrisponda meglio alla sua natura e alla sua grazia. Ma dopo tutto, la scelta di un metodo o d'un altro è secondaria in rapporto a quel beneficio primordiale, adottato ed applicato da tutti insieme.

Perchè si possa costituire questo pensiero comune, bisogna essenzialmente che ciascuno possa esprimersi completamente, che nessuno nasconda qualche idea, per timore d'essere rimproverato o tacciato d'ingenuità dagli altri. Questione di tatto! Quando c'è un nuovo venuto nella squadra, proprio allora se ne ha maggiormente bisogno. Bisogna considerare che questo nuovo venuto non è al corrente, che sale sul carro in piena corsa: se ci si dimentica di spiegargli la direzione del cammino, di iniziarlo alla velocità di corsa, egli corre il rischio di «perdere i pedali» e di scoraggiarsi. La squadra agirà allora all'opposto del suo programma. Confessiamo umilmente che per poco questo non ci capitò una volta o due. I giovani allora hanno dato l'allarme e uno di noi si è preso l'incarico di rimetterli a galla.

Si permetta anche a questi giovani d'avere le loro idee nuove, idee che non ci si affretterà a dichiararle ingenue, gridando ad alta voce. Si permetta loro anche d'ingannarsi, di sbagliare, e d'essere perentori, battaglieri (è la loro età!) persino nei loro errori. Siamo stati noi pure come essi. Che se, alla loro uscita dal seminario, non concediamo che siano entusiasti e pieni di trasporto per ciò che noi chiamiamo illusioni, pericoliamo di farli diventare assai presto indifferenti e disanimati. Il che non sarebbe un bel risultato.

Pensar insieme è ancora relativamente facile ma che cosa succede sul piano dell'azione? Ciascuno ha pure il suo lavoro...

Sul piano dell'azione, il principio rimane lo stesso: Agire insieme, ciascuno al proprio posto, beninteso, ciascuno con la propria parte ben definita, come abbiamo detto; senza limitazione, però, e senza divisione in scompartimenti. Il problema da risolvere non è che ciascuno faccia strettamente il proprio lavoro e sia poi padrone del suo tempo: è invece che il lavoro venga compiuto.

Principio primo in materia:
— Non si è mai finito il proprio lavoro, quando un altro ha ancora qualche cosa da fare.

È chiaro che noi esaminiamo qui solo i compiti a cui tutti sono interessati: una cerimonia in chiesa, una festa, una campagna da lanciare: ma quanti servizi si possono rendere anche nel campo delle opere! È necessario che ciascuno conosca il lavoro degli altri e che, facendolo in certo qual modo suo, si sforzi di colmare i vuoti, di rimediare alle dimenticanze. Non si tratta di calcolare ciò che si è fatto o non fatto, ma di guardare sempre quel che rimane da compiere. Questo presuppone certamente che si bandiscano le suscettibilità, ed anzitutto la propria. Ah, la suscettibilità... è il nemico numero uno del lavoro in squadra. Come può il capo distribuire le mansioni, come può essere raggiunto il bene comune, se ci si agita facilmente per una mancanza di riguardo a parole, per un'asprezza di modi, per un usurpamento in fatto di prerogative? Come agire abbastanza liberamente al momento d'una festa, come prendere l'iniziativa di riparare la dimenticanza d'un confratello, se ci si deve chiedere che cosa egli ne penserà, se bisogna temere che egli ne sia urtato? Cerchiamo dunque di non essere di quelli che bisogna «prendere coi guanti». L'opera missionaria si farà ben più facilmente, se non cercheremo il nostro buon esito personale, ma unicamente l'avvento del regno di Dio nella parrocchia.

E così pure, in quella vastissima azione che è l'azione parrocchiale, bisogna che ciascuno sia assolutamente deciso ad integrare nel piano comune la specialità di cui è incaricato. Ci saranno spesso sacrifici da accettare per questo: potrà essere mutato da questo fatto tutto l'orientamento di un'opera, d'un movimento: in certi momenti sarà necessario mettere in sordina un'attività, sospendere lo sbocciare di un gruppo particolare, che potrebbe accrescersi a detrimento dell'insieme. Non bisogna dunque soltanto non ricercare la propria riuscita personale, ma si deve accettare che l'opera comune ci imponga talora uno smacco su un punto speciale. Bisogna accettare di arrestare qualche giovane imbarcazione, ed avere per di più il coraggio di rassegnarsi a questa sconfitta, di compiere questo sotto gli occhi di tutti, come se ne fossimo responsabili, senza cercare di alzare la voce o d'insinuare che vi siamo stati costretti, senza lasciar indovinare che si è fatto un sacrificio. Ah, che bella mortificazione è questa, che fa soffrire nel profondo dell'anima, ma che la libera dal proprio «io». 

Come si vede, il lavoro in squadra non sopprime l'obbedienza: l'approfondisce.

Vedo nella vostra sala numerosi grafici: sono te prove di un’altra forma del vostro lavoro in comune?

Sì: essi provano che noi mettiamo a punto, di settimana in settimana, i risultati del nostro lavoro. Dopo l'azione, correggiamo le prove. E voi capite che anche in questo un solo individuo non sarebbe da solo capace. Essa esige il concorso di tutti. Fare squadra, per noi, significa anche fare la critica della nostra azione comune. Questa parola «critica» non deve però farvi pensare che sia un'opera negativa. No: noi registriamo insieme anche il successo e vi attingiamo un motivo di incoraggiamento: ma, anche insieme, tocchiamo col dito le debolezze e gli errori. È molto più facile che quando si è soli. Nella solitudine, si prova talvolta un certo malessere, si ha la sensazione che «c'è qualcosa che non va»; ma non si sa troppo bene perchè e ci si sente impotenti a rimediarvi. Invece in comunità, quando regnano la schiettezza e la cordialità, si capiscono subito i punti deboli. Si è in parecchi a vedere e a sentire, e quindi c'è maggiore probabilità che qualcuno nel numero abbia scorto — o da sè, o udendo certe riflessioni — cose che non vanno. Qui ci serve egregiamente il difetto della nostra povera natura, grazie al quale vediamo più facilmente la festuca nell'occhio del vicino che il trave nel nostro: è evidente che ciò che sfugge ad un confratello trasportato dalla sua azione non sfugge ad un altro, e che un orientamento o una deficienza di cui il parroco non si accorgerebbe, perchè ha troppe cose da vedere contemporaneamente, colpisce invece uno dei vicecurati. Allora è tanto di guadagnato: si può passare tutto al setaccio del giudizio della squadra: i sermoni, i cori parlati, l'organizzazione delle feste, il modo di dirigere la messa, il lavoro in un quartiere, ecc...

Ogni domenica, dopo il pasto, noi ci riuniamo nella sala di comunità: cominciamo col fare il totale delle diverse assistenze, e col tracciare il grafico sui cartelloni appesi ai muri, che da cinque anni ci dicono i nostri progressi e i nostri indietreggiamenti. Li commentiamo. Poi facciamo la critica dei sermoni, sia di quello del parroco come di quelli dei collaboratori: sostanza, forma, opportunità. Tocca poi in seguito a quelli che hanno diretto la preghiera. Potete facilmente capire il vantaggio che ciò presenta per ciascun membro della squadra: invece d'ostinarsi in un vicolo chiuso o d'incrostarsi in un'usanza, c'è la permanente esigenza del meglio, che ci sprona e ci corregge. Si diventa per forza molto esigenti verso sé stessi, poichè gli altri ci aiutano in ciò. E poi... quando le critiche sono fatte così in pubblico, non c'è più motivo di farle dietro le spalle: non credete che sia tutto beneficio per la carità e per la reciproca fiducia? Quale giovane prete, arrivando in una parrocchia, non sarebbe fortunato nel trovare una squadra che gli dica quel che va bene e quel che va male? È già qualche cosa che un confratello, al quale egli lo chiede, s'incaricasse d'avvisarlo; ma può uno solo rendersi conto di tutto un complesso? E del resto, udendo la critica di uno solo, si è così facilmente disposti a credere che s'inganni o che veda male, a mettere in dubbio un giudizio che ci sorprende e ci ferisce. Invece, quando un'intera squadra dice in coro: «È vero: voi non ve ne rendete conto, ma noi la pensiamo tutti così», si è ben costretti ad arrendersi all'evidenza, di fronte a quell'unanimità. E se per caso l'unanimità non è completa, se uno o l'altro mette una sordina, attenuando il giudizio troppo severo, è tutto beneficio anche questo.

Noi portiamo anche tutti insieme alla squadra gli apprezzamenti che abbiamo raccolti sulle labbra dei nostri parrocchiani: non sono i meno utili, perchè è per essi che noi lavoriamo. Se anche non tutti questi apprezzamenti sono da tenersi in conto, quanto ci riescono preziosi, portandoci luci che ci mancherebbero! Senza la squadra, noi non potremmo trarne profitto perchè nessuno oserebbe dire ad un confratello le critiche che ha udite intorno al suo apostolato. La critica in comune è facile; essa si rivolge a tutti, dal momento che siamo tutti solidali nel medesimo lavoro.

Non solo il ministero di ciascuno è passato al setaccio, ma anche il suo tenor di vita e il suo carattere. Ci sia concesso di dire quel che facciamo ogni anno riguardo a questa correzione fraterna. Un'altra squadra di nostra conoscenza lo fa tutte le settimane. Noi al momento del ritiro, in quel momento in cui si è più disposti a ricevere, «giuochiamo ai ritratti». E cioè, ci riuniamo una sera e ciascuno, a turno, mentre l'interessato è uscito, suggerisce qualche cosa che gli si addica: si forma così un ritratto d'insieme, in cui egli, quando gli verrà presentato potrà riconoscere ciò che in lui è da riprendere o da accentuare. All'indomani, iniziando il ritiro, egli saprà su che cosa portare il suo esame, per metà già fatto. Il parroco, naturalmente, non si sottrae alla sentenza: riceve per ultimo il verdetto della squadra e lo registra. Allora ognuno si sente ancor più forte per ripartire per una nuova tappa, così spalleggiato dai compagni di viaggio: poichè si sa benissimo che colui che ha ricevuto un maggior numero di rimproveri non è il meno utile alla squadra.