Dicevate poco fa che l'apostolato è anche una «ascesi» e il nostro primo mezzo di santificazione. Come intendete ciò?

In primo luogo, per noi, l'apostolato non è un lusso, un'opera di soprappiù, qualche cosa di facoltativo: è la nostra professione, il dovere del nostro stato. Non ci santificheremo dunque senza compierlo, e non lo compiremo in pienezza senza santificarci. Questo dovere di stato, d'altronde, implica grazie di stato che permetteranno di realizzarlo completamente. È però assolutamente necessario aggiungere immediatamente che questo dovere di stato è tutto particolare. Vuol anzitutto essere amato, pensato, voluto appassionatamente: esige da noi tutto ciò che possiamo consacrargli di tempo e di forze: non si presenta come il dovere di stato d'un impiegato o d'un funzionario: non si accontenta d'un certo numero d'ore di presenza; ma è di tutti i momenti e di tutti i luoghi. Deve presentarci dei «problemi», «sia che mangiamo, o che beviamo, o che facciamo qualsiasi altra cosa», secondo ciò che san Paolo dice della ricerca della gloria di Dio. Il progresso del regno di Cristo nella porzione di campo che ci è affidata deve attanagliarci almeno come l'affanno di tutta la famiglia attanaglia una madre, o come la prosperità degli affari preoccupa un commerciante o un industriale. Non è ammissibile che un viaggiatore di commercio sia più tenace, più accanito nel proporci la sua roba da dozzina, di quanto lo sia io, prete, nel portare il nome di Cristo.

Questa preoccupazione permanente non è già, con le sue esigenze, con la sua «urgenza», un ottimo elemento di ascesi?

Chi dice «ascesi» — nel linguaggio degli scrittori spirituali — dice generalmente mortificazione spirituale o fisica.

Giustamente! Il ministero parrocchiale, così fondato sulla preoccupazione della salvezza per mezzo di Cristo, comporta altre esigenze, che possono determinare notevoli e durevoli mortificazioni. E a noi piacerebbe assai che i nostri consiglieri spirituali mettessero contemporaneamente in luce la loro necessità e la loro efficacia.

Il ministero è anzitutto un meraviglioso educatore all'obbedienza. Noi non parliamo qui dell'obbedienza promessa al vescovo nel giorno dell'ordinazione, nè — per i religiosi — dell'obbedienza ai superiori. Parliamo specialmente della sottomissione dell'apostolo al reale, alle contingenze di luoghi e di tempo, che lo condannano ad una perpetua abnegazione.

Come sarebbe a dire, contingenze di luoghi?

Sarebbe a dire che l'apostolo deve sapere di non dover pensare ad essere altrove che nel posto dove si trova, là dove il suo apostolato è voluto da Dio, come si presenta, con le sue difficoltà particolari. Egli non deve dunque lasciare cadere le braccia in atto di scoraggiamento, sospirando: «Ah! non è ciò che avevo sognato...».
— Capirete... — diceva un nostro confratello — Da cinque anni sono in questo cantuccio isolato: comincio ad aver voglia d'avvicinarmi a Parigi.

Ebbene, quel desiderio era un'evasione; e la santificazione di quel prete sarebbe consistita precisamente nell'amare quel cantuccio, nell'attaccarvisi con passione.

Vi sono anche altre esigenze di luoghi: andare a vedere tutto il territorio, sia le parti più povere come quelle più ricche, sia gli angoli più lontani Che i più vicini...

E le esigenze di tempo, che cosa sono?

Semplicissimo: il prete non ha niente da riservare a sé stesso in maniera egoista: si è prevista una distribuzione armoniosa della sua giornata, ma si ricevono visite a tempo e a contrattempo: si è sognata una bella serata tranquilla, ma si accoglie bene il visitatore che viene a turbarla: si è sovraccarichi di fastidi, ma si sa sorridere alla buona notizia che  qualcuno viene a darci, anche se essa non ci riguarda gran che. E sempre così ci si sente costretti, condannati, legati dal dono che si è fatto di sé stessi. Si accetta di mantenersi fedele a quella tale attività nella parrocchia, mentre segretamente si direbbe volentieri che essa non ci piace più. Non si considera il proprio ministero come una bella avventura da tentarsi, un’avventura che ci fornirà magnifiche imprese e fatti notevoli, da raccontare in seguito, o subito, intorno a noi. Non si concepisce la propria missione alla maniera di certe assistenti sociali alla ricerca di «casi» interessanti, ma si ricercano tutti i casi e si giudicano tutti interessanti. Si sa che il ministero è fatto del grigiore delle giornate, d'opere simili fra loro e d'azioni monotone, più che d'azioni appariscenti e brillanti. Non si prende come un'esperienza destinata ad ammaestrarci; ma ci si sottomette, ci si adatta a tutti i dati che si scoprono, a tutti i bisogni che si scorgono.

Non c'è in questo un'obbedienza continua, incessante, un'obbedienza che obbliga il capo della comunità parrocchiale, il parroco, prima d'obbligare i vicecurati e i parrocchiani stessi? Bella concezione dell'obbedienza, quella che la fa derivare dalla necessità e dal bene della comunità, quella che condanna tutti i capricci, tutti gli sbalzi d'umore, tutte le preferenze personali, invece di erigerli a editti indiscutibili per gli altri.

Il ministero è anche un'ottima scuola di disinteresse.

Ricordiamo di aver sentito un giorno una predica fatta da don Godin ad un gruppo della I. O. C.:
— Bisogna amare la I. O. C.? — chiese alle militanti.
E quelle in coro, piene d'entusiasmo:
— Oh, sì! Naturalmente!
— Bisogna amare la propria sezione?
Identica risposta. Ma come rimasero a bocca aperta le giociste, sentendo don Godin dimostrare loro che avevano torto e che le etichette «I. O. C.» e «sezione» non rappresentavano gran cosa, perchè bisognava amare le giovani lavoratrici, la loro anima! Con la sua attitudine a maneggiare le antitesi, don Godin dimostrò che amare la propria sezione è amare sé stessi. E si espresse così:
— Se amo la mia sezione, godrò nel vedere che essa va meglio della sezione vicina, sarò felice se le altre saranno meno brillanti della mia, mi farà piacere che le giovani lavoratrici lascino un'altra sezione per venire nella mia. Se invece amo le anime, mi rattristerò dell'insuccesso della sezione vicina come di quello della mia.

E mentre egli sviluppava il suo pensiero, illustrandolo con fatti, noi pensavamo dal canto nostro che c'era forse un certo gruppo di curati e di direttori d'opere, ai quali si sarebbe dovuto fare la stessa domanda:
— Bisogna amare la propria parrocchia? la propria opera? il proprio gruppo di Figlie di Maria? la propria sezione giocista? il proprio patronato?

Quale distacco presuppone l'atteggiamento che noi auspichiamo! Guardare in primo luogo al bene delle anime, unicamente al bene anime, e di conseguenza non cercare un successo per sè, un regno per sè, e non credere o lasciar credere, da vicino o da lontano, che le anime ci appartengano.

Prendiamo esempi concreti. Amando le anime e non la parrocchia, che m'importa se i fedeli della mia parrocchia se ne vanno alla parrocchia vicina, quando so che essi vi trovano meglio quello che fa per loro? Ci sono altre anime che mi preoccupano assai di più: quelle che non vanno da nessuna parte... Amando le anime e non il mio regno, non rimprovererò ad un militante il fatto di mancare alla tal messa parrocchiale, e tanto meno alla processione della prima domenica del mese, se so che egli si valorizzerà altrove con una giornata di studio o di ritiro... Se amo le anime, e non la mia parrocchia, il giorno in cui il mio territorio si dovrà scindere per una maggiore efficienza, penserò che dopo tutto. con diecimila o ventimila anime di meno a mio carico, le diecimila o le ventimila che mi rimarranno sorpasseranno ancora le mie possibilità.

Si racconta che a Ch..., nel secolo scorso, i due parroci della città stavano facendo innalzare contemporaneamente il campanile della loro chiesa. Ogni mattina salivano entrambi sulle impalcature del loro 'cantiere, per vedere al disopra dei tetti se l'altro campanile cresceva più in fretta. Le due parrocchie erano al corrente di quella rivalità e la gente non mancava d'appassionarsi con l'interessato, al progresso dell'opera. Accadde persino che, per non essere in ritardo rispetto al confratello, l'arciprete facesse innalzare sulle due torri due belle guglie, senza prendere le sufficienti precauzioni:  e un bel mattino le due guglie furono trovate in istrada. Da allora non vennero più rimesse su.

Quante opere si potrebbero citare, che sono crollate perchè erano frutto di emulazione, più che d'una vera necessità...

Alcuni anni or sono, avevo l'incarico di due patronati di ragazze. Inutile dire che la carità non regnava sempre fra le due opere, almeno da parte di certe direttrici. Avevamo chiesto alle ragazze più anziane dei due patronati d'essere zelatrici dei gruppi di «Crociata eucaristica» della parrocchia: bambine dei due patronati, ragazzi del patronato, scuole parrocchiali, ecc... I gruppi erano numerosi; ma i confratelli mi avevano pregato di fare un'unica riunione per le varie zelatrici. Questo avrebbe fatto guadagnare tempo a tutti, avrebbe dato maggior vita, avrebbe maggiormente arricchito tutte. E del resto, le zelatrici accettarono con entusiasmo... Ma, ahimè!, all'indomani della prima riunione, fui avvicinato dalla buona suora direttrice d'uno dei patronati:
— Come, reverendo, voi riunite le nostre grandi con quelle dell'altro patronato?
— Ma sì, sorella!
— Allora le nostre grandi comunicheranno alle altre tutte le nostre idee, e l'altro patronato trarrà profitto da tutto ciò che noi abbiamo di buono.
— Tanto meglio, sorella: mi sembra che sia per il medesimo Padrone.
Non so se la monaca mi abbia capito. Temo piuttosto che abbia fatto la sua prima preghiera più per il suo regno compromesso che per il regno di Dio da far progredire.

Parleremo delle rivalità di confessionali, di quella specie d'accaparramento delle anime, per il quale ci si appassiona più ad accrescere il proprio dominio spirituale che a partire per la conquista delle anime, delle pecorelle smarrite? Ecco un terreno eminentemente pratico e spirituale, al quale dovrebbero portarci i nostri sforzi di distacco, la formazione, la predicazione che ci sono destinate.

Non si ammetta neppure come un male necessario la divisione delle opere, la stecconata intorno alle attribuzioni di ciascuno. Che importa la nostra influenza, “dummodo Christus annuntietur”, o da Pietro o da Paolo? Non è questo un desiderio nostro proprio: l'ha detto san Paolo, e dopo di lui l'hanno ripetuto molti altri. Si lavori dunque per avere i piedi meno sensibili ai colpettini involontari del confratello un po' grossolano... o più accorto, più stimato, più abile. Ecco i difetti ai quali dovremmo dare la caccia dentro di noi, preti del ministero parrocchiale, perchè sono quelli che compromettono il lavoro apostolico, quelli che scandalizzano i fedeli e rendono sterili gli sforzi. Poichè parliamo di distacco, ci permettete anche di parlare di povertà?

Attenzione! Il voto di povertà è richiesto solo dai religiosi.

Senza dubbio: ma lo spirito di povertà è richiesto da tutti i cristiani. Non potrebbe esserci una «povertà sacerdotale» che costituisca un ideale per il prete secolare? e la sua pratica non sarebbe una mortificazione più meritoria del digiuno o della disciplina? Non si potrebbe annoverarla legittimamente fra i nostri elementi di ascesi apostolica? ... Abbiamo detto che il popolo pensa che la nostra sia una vita borghese, borghesemente insediata; ci ritorneremo sopra solo per ribadire ancor più fortemente che un sistema di vita povera è essenziale per l'apostolato popolare. Certo, questo esige molta abnegazione, ma quale seminarista o giovane sacerdote non accetterebbe con entusiasmo questa prospettiva di povertà, se gli si dimostrasse che è necessaria alla sua azione e che fa parte della sua vita di prete? Disgraziatamente, però, egli trova intorno a sè cento reticenze, cento buone ragioni per invitarlo ad «installarsi», per consigliargli sagge comodità con saggia prudenza... È proprio questa la vera prudenza soprannaturale, o non è piuttosto quella malvagia prudenza della carne di cui parlano i teologi?

E d'altronde, c'è più del semplice distacco dai beni materiali. Il ministero in ambiente operaio esige di più. Abbiamo parlato della cultura, o meglio della mancanza di cultura nella classe operaia, e della distanza che di conseguenza esiste fra essa e noi. Sarà un'altra mortificazione, e non la più piccola, privarsi delle gioie artistiche e letterarie nell'esercizio dell'apostolato. Naturalmente, non intendiamo dire con questo che il prete debba negarsi ore di cultura intellettuale: tutt’altro! Diciamo però che nella pratica dell'apostolato egli sacrificherà i suoi gusti e le sue soddisfazioni estetiche.

Spieghiamoci. Fare il sacrificio della propria cultura significa andare verso i più umili bambini del catechismo con maggior amore che verso i liceisti: significa recarsi dal più semplice dei parrocchiani con la stessa compiacenza con cui si va da chi sa già ragionare, capire e trar profitto: significa accettare di stare tutta una sera, tutta una giornata, in mezzo ai giocisti senza soffrire troppo (od almeno senza darlo a vedere) dei loro modi, dei loro discorsi, del loro vocabolario... Saper sacrificare la propria cultura artistica o letteraria significa ancora non cercare di far condividere i propri gusti, non credere d'aver fatto progredire la causa di Cristo perchè si è fatto gustare un pezzo che ci piace: non scegliere quel pezzo perchè ci piace, non imporre quella certa passeggiata perchè ne abbiamo voglia, ma scegliere ciò che farà del bene.

Questa, sì, è abnegazione! e totale, e proficua: una mortificazione d'ogni istante. Ecco quel che ci colloca nella conformità alla volontà di Dio, sulla linea dei nostri doveri di stato. Non sarebbe un ottimo tema per i nostri esami particolari?

È una forma di povertà che ha molto a che vedere con l'umiltà.

Tutte le virtù si assomigliano in qualche modo: ma poichè parlate dell'umiltà, vi sono molte riflessioni da fare a questo proposito. Anche lì il ministero parrocchiale potrebbe essere un meraviglioso educatore, mentre invece spesso ci deforma.

Nel giorno della nostra ordinazione, abbiamo sentito 1'«oportet praeesse»: all'altare, riceviamo incensazioni: per reazione contro un mondo che attacca e misconosce il nostro sacerdozio, siamo costretti a difenderlo e proclivi ad affermarne la grandezza, per la profonda stima che ne abbiamo. Attenzione! Dal sacerdozio, passiamo spesso alla persona che ne è rivestita: il passaggio dalla nostra dignità alla nostra vanità soddisfatta è troppo facile. Ecco dov'è il pericolo della deformazione. Il rimedio si deve cercare nella preoccupazione apostolica d'entrare in contatto con le anime.

Si sa — e noi l'abbiamo detto — com'è permaloso il popolo riguardo all'accoglienza che gli si riserba, e quale semplicità di comportamento esige da noi. Non ci permette d'essere gran signori. Siccome ignora il valore del nostro sacerdozio, non aspettiamo che cominci con l'onorarlo. Concediamogli quell'ignoranza. La nostra umiltà troverà lì un terreno d'elezione: accettare le incomprensioni, le mancanze di riguardo. non pretendere il primo posto, neppure quando ci è dovuto...

Ad una riunione di militanti d'azione cattolica, un parroco insediato da poco in parrocchia diceva: «Sono io il vostro capo!». Aveva cento volte ragione, il caro confratello, ma non di dirlo con quel tono: non dirlo affatto gli avrebbe assicurato altrettanta autorità e più affetto. Se si sapesse come gli operai ci rimproverano tali affermazioni! Ci prendono per orgogliosi: ecco tutto. Sottomettiamoci allora a queste sconoscenze, accettiamo d'essere disprezzati, facciamoci piccolissimi tra i piccoli: sarà una scuola quotidiana, dove impareremo a mettere meglio in noi la somiglianza del Figliuol di Dio, misconosciuto dagli uomini. La nostra meditazione del mattino potrebbe prepararci a ciò, facendoci contemplare quell'umiltà divina: l'esercizio del ministero, durante tutta la giornata, la affinerà in noi in un modo diversamente profondo dalle considerazioni più elevate e più affettive. Anche lì la vita  può aiutare il nostro progresso spirituale molto più di una spiritualità disincarnata. La nostra anima non è lavorata solo più dai nostri sforzi di volontà, ma da tutte le esigenze della vita. In seminario ci viene predicata l'umiltà. Si prevede allora bene sotto quali forme concrete dovremo esercitarla? Nel giorno dell'ordinazione, dovremo averla finita una volta per sempre con le preoccupazioni di considerazione, di avanzamento, di precedenza, ecc... Tutto questo è bandito in pratica ed anche nel regolamento del seminario? Ci sembra di ricordare che c'era una specie di libro delle diverse cariche e una precedenza dei «dignitari» (non si dovrebbe proscrivere la parola stessa? Vi sono servizi, ma non «dignità»).

Rammento che in seminario si raccontava questo fatterello, accaduto pochi anni prima. Un seminarista del primo anno incontra in un corridoio un anziano del quinto. Distratto, o poco al corrente degli usi e costumi del seminario, tralascia di salutarlo. L'anziano, con un gesto dignitoso, fa volare la berretta del giovane confratello... Questo ci veniva citato come esempio d'una bella lezione data ad un giovane. Ebbene, no! Se io avessi dovuto, come direttore del seminario, sistemare la faccenda, avrei temuto per l'avvenire dell'anziano ed avrei rimproverato quest'ultimo, e molto acerbamente. Lo vedo benissimo incapace, più tardi, di sopportare una mancanza di riguardo: proprio come quel confratello che si ritenne in obbligo di schiaffeggiare un povero simpatizzante giocista, perchè questi non l'aveva chiamato «Reverendo» e gli parlava tenendo in capo il berretto... È forse un peccato che questi giovani non abbiano un maggior senso del rispetto; ma finchè l'impertinenza non si rivolge volontariamente al sacerdozio, sta a noi trovare in essa una preziosa occasione d'umiltà!

Si cita spesso a san Sulpizio la parola di Berrué:
— Signori, dal momento in cui siete sacerdoti, siete arrivati.

Bisognerebbe che fosse un assioma definitivamente ammesso, che non vi sia «avanzamento» desiderato al di là di questa consacrazione. Si direbbe invece che queste meschine preoccupazioni di decorazioni, di onori («al plurale», direbbe Péguy), che sono certamente un appannaggio dell'intera umanità, trovino un terreno scelto nell'ambiente ecclesiastico, poichè da noi, ben stabiliti e ben desiderati, vi sono gli «onori ecclesiastici». Come siamo distanti dal nostro ideale sacerdotale! Come ritorniamo facilmente al fariseismo stigmatizzato da Cristo! Perchè dobbiamo essere così sensibili a questi fronzoli, così suscettibili riguardo ai titoli che ci vengono dati? Quante miserie! Quante bende che ci legano gambe e braccia, ed intralciano la libertà della nostra azione apostolica! Di tutte queste vanità fanno le spese le anime. Si crederebbe, per caso, che i fedeli non se ne accorgono? Del resto, la cosa più grave non è che se ne accorgano, poichè sono i migliori, i più ardenti, i più cristiani, quelli che ne traggono più tristezza che scandalo: la cosa più grave è che ciò sia ammesso e che ci si perda tempo dietro. L'umiltà dovrebbe ancora spingerci ad accettare volentieri i consigli dei parrocchiani, a sollecitare anzi le loro critiche: perchè, in fin dei conti, siamo al loro servizio, ed essi hanno talora sull'efficacia dei nostri metodi luci che noi non abbiamo. Essi vedono e sentono cose che noi non possiamo nè vedere nè sentire: sono testimoni di reazioni che a noi non verranno mai presentate direttamente.

Ci è stato riferito il seguente tratto d'uno dei più grandi prelati di Francia. Egli aveva fatto venire un giovane militante operaio, per sentirlo parlare della sua azione e dei risultati ottenuti. Al termine del colloquio, il Cardinale uscì in questa domanda diretta:
— Ditemi: che cosa si pensa di me nel vostro ambiente? Rispondete con sincerità!
— Ebbene, Eminenza: ieri dicevo ai miei compagni che sarei venuto oggi da voi, ed essi mi hanno detto:
— «Ah! anche quello lì è un borghese come gli altri». («gli altri», sarebbero l'insieme dei cattolici!).
E il buon Cardinale, invece d'offendersi, rispose:
— Caro ragazzo, voglio che tutti i mesi veniate a riferirmi così francamente quel che si pensa.
Non fu questa la vera umiltà, come pure la vera grandezza?

Per il fatto che un laico ci dice che abbiamo torto su questo o quel punto, noi crediamo che la religione sia compromessa. Cerchiamo di non essere come quei farisei del Vangelo, che provavano piacere nel farsi salutare con deferenza e trattare da «rabbi». Molto abbiamo da imparare da coloro che siamo chiamati a guidare: appena entra in linea, la nostra vanità ci impedisce di trarre vantaggio dai loro consigli... È chiaro che nelle nostre parrocchie, specialmente in quelle urbane, troveremo sempre degli adulatori, che lo saranno spesso senza spirito e senza vanità. E noi corriamo il pericolo di prestare loro fede! Quale errore! Ci fu un parroco odiato da tutta la parrocchia (che ne chiedeva con insistenza la sostituzione), il quale il giorno in cui l'Arcivescovado lo trasferì lanciò subito una petizione per essere lasciato nel luogo, e raccolse duemila firme. Come non prendere abbaglio, in queste condizioni? Nulla di strano se, incensato all'altare, incensato altrove a tempo e fuori tempo, il prete fatica a mantenersi nell'umiltà. Fortunati quelli che possono ricevere testimonianze dirette e sincere su quel che da essi si attende, su quel che si disapprova, su quel che si desidera! Ma questo privilegio è riservato a coloro che sanno provocare la fiducia, la confidenza e la schiettezza con la semplicità.

Sapete che cosa vi rimproverano più di tutto e molto spesso i laici? Quel che taluni chiama «la prudenza».

Purtroppo! È sin troppo vero che questa pretesa prudenza è diventata come la virtù ecclesiastica per eccellenza. Quando si parla del tono ecclesiastico, dello stile ecclesiastico, delle maniere ecclesiastiche, si designa la prudenza: un misto di unzione, di riserbo, di riguardi, di abilità. Essa è terribilmente odiosa e ci rende odiosi alla nostra gente, che ha sete di verità, di precisione, di schiettezza. Ascoltatela parlare; ascoltate il miglior padrone mentre parla col suo migliore operaio: lo stile è limpido, chiaro, senza circonlocuzioni. C’è meno unzione, ed una maggiore lealtà.

Questa pretesa prudenza non è una virtù autentica. Nulla ha di comune con la prima virtù cardinale, virtù per eccellenza del capo che dirige il buon combattimento per il trionfo della carità. Noi non saremo mai troppo prudenti di tale prudenza genuina: ma l'altra, la falsa, fa di noi dei pusillanimi dolciastri, degli esiliati nel nostro interno, chiusi in abitudini, poco simpatiche ed inefficaci. I laici vorrebbero che fossimo forti, audaci, capaci di andare avanti.

Capiscono che tocca a noi aprire la strada e che solo noi possiamo farlo senza considerazioni di partito o d'interesse. E ci sarebbero grati se intraprendessimo la buona lotta, se ci compromettessimo quanto fosse necessario. La nostra famosa prudenza è insieme soltanto una paura dello smacco e un amore della nostra tranquillità. Se la respingessimo, conosceremmo certamente qualche sconfitta, ma progrediremmo di più e gli stessi smacchi sarebbero altrettante benedizioni per la nostra umiltà e per la nostra mortificazione. Non raccomandiamo per questo intemperanze di linguaggio o altri scarti di condotta, che abuserebbero della virtù di forza, opponendola alla prudenza; pensiamo però che un certo coraggio, fondato sulla carità e sull'amore del vero, potrebbe utilmente contribuire a liberarci. Anche qui bisogna dare ascolto alle esigenze del ministero. È questo che ci suggerisce le determinazioni da prendere.

Non dovevate parlarci della vita comune in squadra?

Lo faremo ampiamente nel prossimo colloquio. Sappiamo però sin d'ora che siamo chiamati a lavorare in comune, qualunque siano le modalità di questa collaborazione. Ora, questo lavoro in squadra, impostoci più o meno dal ministero, porta in sè una virtù, se vogliamo ricavarne buon profitto per il nostro progresso spirituale.

Non siamo ben sicuri che la formazione e l'addestramento del carattere ottengano nella spiritualità ecclesiastica tutto quel posto che meritano. Si sono visti seminaristi ritardati all'ordinazione o messi persino alla porta perchè avevano fumato, o perchè parlavano troppo durante il tempo di silenzio. Ma si è mai visto qualcuno licenziato per il suo brutto carattere, per il suo fondo d'egoismo, perchè era un compagno insopportabile, suscettibile, arcigno, altero, poco socievole? Eppure, nel ministero, quante volte abbiamo avuto occasione d'incontrare preti considerati ottimi — e che del resto possedevano autentiche qualità — ma il cui lavoro era zero a causa degli sbalzi d'umore! La scelta dei seminaristi, come la loro formazione, si avvantaggerebbe, se ci si preoccupasse maggiormente delle loro «virtù sociali». E in tutti i casi, appena si è nel ministero, l'esercizio di queste virtù sociali è necessario perchè il bene sia compiuto: e siccome non è facile acquistarle, ecco un largo spazio aperto all'ascesi. Lavorare in squadra, fare proprio il pensiero altrui, rinunciare a quello personale, saper mettere in armonia i propri metodi con quelli del vicino, spalleggiarlo invece d'invidiarlo: oh, quante virtù devono entrare in azione per ottenere un tale risultato! Benefica esigenza dell'apostolato, che si può realizzare solo se ci spogliamo di tutto!

L'orazione e le virtù, la vita ascetica e la vita mistica, tutto è dunque — per il prete di parrocchia — condizionato dal ministero parrocchiale. Che cosa gli rimane di proprio? la messa?

Meno di tutto il resto indubbiamente. Ed è meglio così, perchè non vi è ragione alcuna che un elemento qualsiasi della sua vita spirituale resti estraneo alla sua vita apostolica. La messa, che è certamente per il prete la principale fonte della sua vita interiore riceve dalla sua preoccupazione e cura delle anime un nuovo valore santificante. Una messa ben celebrata sia interiormente che esteriormente, ha una considerevole efficacia apostolica. Noi siamo lì in pieno esercizio del nostro ministero sacerdotale, ancor più che quando predichiamo o confessiamo. Rappresentiamo la parte del nostro Gran Sacerdote, del Pontefice: facciamo salire a Dio il sacrificio del popolo e scendere sul popolo le grazie di Dio, “per Ipsum, cum Ipso et in Ipso”. Ora, una spiritualità insufficientemente sacerdotale spinge troppi preti a concepire la loro messa come un atto di devozione privata. La messa non è mai cosa privata: è essenzialmente l'atto della Chiesa, l'atto del Corpo mistico tutto intero, dove il prete associa sé stesso ai fedeli per rendere un omaggio sociale alla Trinità.

Ci è stato riferito un fatto che crederemmo in data della fine del secolo passato, se non ci garantissero che è dello scorso mese. Discorrendo in una riunione decanale, si criticavano molto le messe dialogate, i cori parlati, i cantici francesi; ad un tratto un bravo e degno prete esclamò in tono sentenzioso:
—  Ma ci lascino dire in santa pace le nostre messe!
Lo stesso interlocutore ci raccontava ancora che, avendo organizzato una giornata di Crociata Eucaristica, fu costretto a far assistere i suoi bambini in silenzio alla messa, perchè il signor Arciprete non voleva essere. disturbato nè dalle preghiere ad alta voce, nè dai canti, nè dalle spiegazioni. Ve l'immaginate? Un migliaio di fanciulli radunati per una festa eucaristica e condannati a trasformare la loro messa in una mezz'ora di immobilità, mentre i preti di guardia non la finivano più di sussurrare «zitti! zitti!» e di fare gli occhiacci!... Ed il fatto è proprio autentico!...

Se avessimo questo senso, la presenza del popolo — la sua presenza attiva, la sua partecipazione — diventerebbe per noi una necessità, quando celebriamo. E ci sarebbe in noi un altro bisogno, quello di comunicargli, con una celebrazione perfetta, le ricchezze che teniamo in mano. Una messa ben detta — non solo ritualmente, ma anche religiosamente — una messa che parli al popolo, per mezzo del nostro accento, dei nostri gesti, in comunione con lui, è contemporaneamente (chi non Io vede?) un esercizio di apostolato e un arricchimento di vita interiore.

— Il Signore è con voi, fratelli miei! Fratelli miei, siete voi con me? ...

Non è solo la patena, non è solo il calice col vino: sei tu, mio piccolo popolo tutto intero, che io vorrei tenere e sollevare fra le mie mani...

Questa preghiera, che Claudel mette nel cuore del prete all'Offertorio, se fosse l'espressione del nostro cuore sacerdotale, quale risonanza avrebbe nella folla e come modificherebbe il nostro atteggiamento, interno ed esterno! Più di quelle messe celebrate alla meno peggio, mormorate, sbrigate in venti minuti, a danno di chi le celebra e con scandalo di chi le segue: più di quei gesti affrettati che rendono così ridicola la nostra parte sull'altare. Ci vuole una comunità in preghiera, per mezzo nostro, per grazia nostra, in Cristo. E l'anima nostra assumerebbe, ingrandendosi, le dimensioni della cristianità, perchè sarebbe veramente sacerdotale.

Anche qui, specialmente qui, deve esserci una sintesi tra la vita spirituale e l'apostolato, un'intima compenetrazione, un aumento dell'uno per opera dell'altra.

 

Non ci si predichi dunque una spiritualità da «separati». Se dovessimo rimanere suddiaconi per tutta la vita, ci potremmo accontentare di prepararci a recitare l'uffizio e a guardarci dalle tentazioni del mondo: ma dobbiamo essere preti, e preti di parrocchia. Non è possibile che Dio, il quale ci ha scelti per comunicare agli altri la sua vita, con la sua parola e coi suoi sacramenti, abbia permesso un'opposizione reale fra la missione che ci ha affidata e la nostra santificazione. Al contrario, siccome il nostro stato è di per sé stesso santo e ordinato alla santificazione degli altri, sembra normale che santifichi noi stessi, e tanto più in quanto l'eserciteremo con maggior vigore (1).

Si comprende in quale senso vanno i nostri desideri: che cioè nella formazione del seminario e nella nostra autoformazione l'apostolato serva maggiormente da leva per la vita interiore. Se il nostro zelo parte dall'amore di Cristo e delle anime, è una buona, un'ottima passione, una passione bella e preziosa come quella del monaco per lo splendore del culto. Ebbene, questa passione, è potente in molti preti. Non si abbia dunque l'aria di diffidarne, la si sviluppi, ci si appoggi su di essa, se ne faccia una condizione sine qua non d'ammissione agli ordini sacri, se ne tenga conto per l'assegnazione dei posti. Si potrà allora sperare nello sboccio di certe vite sacerdotali, con maggiore sicurezza che giudicando del valore dei preti attraverso la loro «unzione» o attraverso le loro qualità di buoni amministratori.

Sia la nostra spiritualità tutta fondata sulle esigenze del ministero, si studino tali esigenze meglio di quanto non l'abbiamo fatto noi nella fretta di questa opera e si vedrà che non solo non vi è opposizione fra vita spirituale e vita apostolica, ma che esse si postulano e si condizionano reciprocamente.


NOTA

(1) Speriamo d'esserci spiegati chiaramente, in modo che nessuno possa fraintendere il nostro pensiero. Non abbiamo affatto intenzione di sminuire gli esercizi di pietà, e tutto ciò che viene proposto nel seminario maggiore e nei libri di spiritualità. Questi esercizi agiscono come periodi di vigoria nelle nostre giornate tutte dedite all'azione: alcuni di essi ci servono per controllare la nostra generosità o la nostra vita d'unione: così, per esempio, le mortificazioni esterne. Abbiamo semplicemente voluto dire la loro relazione con la nostra vita apostolica, ed insistervi molto.

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