APOSTOLI PER L'OPERA MISSIONARIA

 

  1. Con una spiritualità autenticamente sacerdotale

Il programma da voi tracciato è attraente: ci vogliono anche gli uomini capaci di metterlo in pratica, però.

Ecco infatti una questione cruciale. Molte volte, conversando con qualche confratello sui problemi di apostolato che solleviamo qui, sulle esigenze attuali della riconquista delle masse e su ciò che potrebbe essere un apostolato missionario, siamo giunti a questa conclusione:
— Ci occorrono preti capaci d'intraprendere e di sostenere un tale sforzo.

Altre volte, parlando del medesimo problema con qualche laico, abbiamo avuto il dolore di sentire costui dire sospirando:
— Sì, ma bisognerebbe che i preti capissero!

E siccome i laici sono meno indulgenti di noi, ed anche meno al corrente delle difficoltà del ministero, udivamo soggiungere con un pizzico di amarezza:
— In tutti i casi, non saranno certamente nè il mio curato nè i preti della mia parrocchia quelli che potranno fare ciò.

Si tratterebbe dunque non tanto di avere buoni metodi, come uomini capaci di scoprirli: non tanto di forgiare buoni strumenti, come di forgiare buoni operai.

Quel che conta di più è la corrente di vita, l'anima che l'apostolo porta alla sua missione, quell'anima che egli sa trasmettere a chi gli sta intorno, alla sua parrocchia, alla sua opera. Non abbiamo forse visto preti meravigliosamente dotati fare fiasco dovunque, mentre altri dalle possibilità apparentemente limitate davano un intenso rendimento apostolico? Si vede chiaramente che il valore apostolico d'un sacerdote non è in necessaria e proporzionale relazione col suo valore intellettuale, per prezioso che sia e sotto qualunque forma si manifesti: filosofica, artistica, letteraria, inventiva. È piuttosto in rapporto col suo valore d'anima, col suo coefficiente di ardore spirituale.

È proprio quel che si dice ai seminaristi, durante i ritiri: «Siate santi e farete del bene».

Nessun prete che abbia esperienza del ministero può non sottoscrivere questa affermazione. Bisogna però intendersi: c'è santità e santità. Come c'è la bellezza innata e la bellezza delle creature, c'è anche la Santità in Dio e la santità degli uomini; e fra questi sono molteplici le forme di santità: quella del laico non è la stessa di quella del prete e quella del prete nel ministero non è quella del monaco o del frate predicatore.

Da tutto ciò che abbiamo detto sin qui s'impone manifestamente una conclusione: noi preti, noi missionari parrocchiali, dobbiamo avere uno stile di vita, un fuoco interno, un'intensità di forza che siano fuori del comune. Questa vitalità interiore ad irradiamento apostolico non potrebbe qualificare una speciale santità sacerdotale e determinare una spiritualità sacerdotale?... Oh, lungi, lungi da noi il pensiero di dare lezione a chicchessia e la pretesa di tracciare le linee d'una nuova spiritualità! Questo non rientra nè nel nostro compito nè nei nostri mezzi. No! Noi vorremmo solo far vedere che:

1) l'apostolato quale lo consideriamo noi esige da parte nostra una vita interiore capace di creare in noi una «mistica» propriamente sacerdotale;

2) Esso costituisce di per sè un mezzo di santificazione, una «ascesi» propriamente sacerdotale, che conduce per se stesso alla santità.

Vorremmo infine far vedere che, nel catalogo delle santità — se così si potesse dire — non tutte sono buone: talune potrebbero, anzi, essere dannose al nostro ministero.

Quali relazioni stabilite voi fra «apostolato» e «mistica sacerdotale»?

Ricorderete quel che dicemmo quando parlavamo di ciò che più di tutto ci sta a cuore: l'apostolato diretto, specialmente presso gli adulti. Dicevamo che si tratta di portare il messaggio di Cristo, d'accostarsi alle anime, di far loro condividere le ricchezze che portiamo in noi, di comunicare loro l'amore che riempie i nostri cuori. Si tratta assai più di slancio e di convinzione che d'organizzazione e di teoria. Non è una novità, direte. Dopo tutto, le opere concepite da un secolo, i mezzi d'apostolato previsti, organizzati, non hanno altro scopo che quello di metterci a contatto con le anime, sia dei bambini che dei giovani e degli adulti, precisamente per dare loro Cristo... È vero: a patto però che l'apostolato sia talmente forte, e che la sua convinzione sia così ardente, da essere capace di trascendere quei mezzi e di costituire di per sè un polo d'attrazione sufficiente per le anime che cercano e un focolare che possa risvegliare i cuori addormentati. La preoccupazione dell'organizzazione può uccidere l'apostolato.

Ed anche un modo particolare di vedere e concepire la dottrina. Parlando della predicazione, ci dolevamo che ci abbiano insegnato così bene a trattare della Trinità, dell'Incarnazione, della Redenzione, e non abbastanza a parlare di Gesù Cristo. Abbiamo constatato che la nostra formazione scolastica ci rendeva più adatti ad esporre concetti astratti, a costruire un'argomentazione, che a portare un messaggio e a parlare di Cristo come d'un Vivente, del grande ed unico Maestro e Amico. Affare di cuore ancor più che d'intelligenza: si tratta di un accento da mettere a posto, più che di idee da esporre. Non dicevamo per questo che i nostri anni di filosofia e di teologia siano stati inutili. Tutt'altro! Forti basi intellettuali sono necessarie a chi deve portare la propria fede in un mondo dove gli errori e i pregiudizi brulicano come vermi. Ma è importante che le nostre astrazioni scolastiche non abbiano raffreddato il nostro entusiasmo e il calore della nostra convinzione. E così pure, se parliamo di spiritualità, diciamo che bisogna stare in guardia da una spiritualità arida, esangue, una spiritualità da ufficio o da laboratorio, staccata dalla vita, che ci impedirebbe di portare il messaggio e d'essere portati da ciò che portiamo, o che semplicemente ci farebbe rallentare il passo.

Quanti giovani confratelli, entrando in seminario, hanno sognato di conquistare il mondo! Ben pochi, certamente, considerano il sacerdozio come una sinecura: ben pochi, nel giorno dell'ordinazione, non hanno la preoccupazione d'essere ottimi preti, e quando sono designati per una parrocchia non vi arrivano col desiderio di trasformarla... Quell'entusiasmo non dovrebbe cadere, quello slancio non dovrebbe rallentarsi. Questo non si verificherebbe — o almeno correrebbe meno il rischio di verificarsi se si fosse ben mostrato al seminarista che quell'ardente desiderio è santo e santificante. Perchè accade così spesso che si prenda gusto a gettare acqua sul fuoco divoratore dei nostri primi anni? È dunque così necessario raffreddarlo? Perchè, al contrario, non servirsi invece di questa potente leva per portarci, per sollevarci, per mantenerci in stato di generosità, di dono di noi stessi? ... Ricordiamo che, all'inizio d'un anno scolastico, il superiore del seminario ci disse, come preambolo ad una serie di letture spirituali:
— Quest'anno, signori, voglio parlarvi dello zelo. E siate anzitutto prudenti...

Del resto, tutta la serie dei colloqui fu su questo tono, a base di prudenza, di calma, di circospezione. Dio mio! Di che cosa aveva paura, il superiore? che scavalcassimo il muro di cinta del seminario per andare a predicare nei sobborghi della città?... II nostro innato egoismo s'incaricherà abbastanza presto di rallentare il nostro zelo!

Di fronte a quegli ardori giovanili, non sarebbe stato più accorto e più efficiente basarsi sul loro desiderio, sul loro amore delle anime, per invitarli a ricavare buon profitto dal seminario? Se il superiore ci avesse detto: «Temete, signori, che un giorno il vostro zelo diminuisca: intensificate il vostro amore di Cristo e delle anime: perchè c'è bisogno di voi, perchè siete chiamati, perchè le difficoltà saranno enormi e avrete bisogno di molto amore», non avrebbe trovato la strada dei nostri cuori con maggior sicurezza che mostrando di dirci: «Io temo,. signori, che il vostro zelo sia eccessivo?»

Insomma, voi stimate che l'apostolato quale lo concepite richiede una preparazione spirituale almeno forte come la preparazione intellettuale su cui si insiste per lo più?

Sì. Esso non può partire che da una mistica caldissima, vivissima. D'altronde, quando dite «l'apostolato quale voi lo concepite», cioè l'apostolato diretto, senza svolte, quello che parla senz'altro di Cristo agli adulti, non dovreste invece dire semplicemente «l'apostolato»?

Quando ne parliamo, udiamo spesso questa riflessione:
— Sì, ma per questo ci vuole un temperamento speciale.

Che cosa s'intende dire con ciò? Se si pretende che ci voglia un insieme di doni semi-psicologici, semi-fisiologici, i quali si traducano in una certa audacia e in una certa disinvoltura quasi naturali, non siamo d'accordo. È però esatto che occorrano certe qualità acquisite, una vittoria sulla propria innata timidezza, un tale ardore da farci dominare le nostre apprensioni. È nondimeno questione di spiritualità, non di temperamento... Veniamo al concreto. Quando si parte per un giro di visite, per andare a trascorrere un pomeriggio battendo di porta in porta, chiedendosi ad ogni soglia se si sarà ricevuti meglio o peggio, è evidente che bisogna sentirsi spinti da una seria passione interna. Noi che l'abbiamo intrapreso, confessiamo che solo l'allenamento della squadra ci ha permesso di realizzarlo e che parecchi fra noi non ne avrebbero avuto il coraggio, se fossero stati soli. Ne è prova il fatto che, durante i primi tre anni del nostro ministero qui, ciascuno di noi si lasciò assorbire da tutt'altra occupazione che ci serviva tanto da pretesto come da valida ragione per non partire...

Conosciamo invece giovanissimi confratelli, recentemente usciti dall'ordinazione, che durante le vacanze di Pasqua hanno sollecitato dai superiori il permesso di recarsi per tre giorni in parrocchie scristianizzate dell'Jonne. Sia all'andata che al ritorno in ferrovia, e nel villaggio, durante i tre giorni di permanenza, non hanno mai cessato d'entrare in contatto e di parlare direttamente di Gesù Cristo. I risultati, le conversioni d'anime, sono stati molto incoraggianti. Si trattava da una parte di giovani preti inesperti e dall'altra di contadini molto refrattari. Ma ecco: nel cuore di quei giovani era una mistica, un ardore, un fuoco divoratore, un po' alla maniera di San Paolo. Non bisogna quindi stupirsi se quel fuoco accendeva, almeno qua e là, qualche fiamma, se non qualche incendio.

Fortunati preti, che entrano nel ministero con quella prospettiva del contatto diretto con le anime, con quella volontà di dedicarsi completamente ad esse, di compromettersi sino in fondo! Invece noi siamo entrati nei nostri posti intravvedendo la nostra attività solo sotto l'aspetto d'una gerenza d'opere o d'un apostolato ben avvolto in una rete d'attrazioni più o meno facili da organizzare.

Ci rallegriamo dello zelo di certi militanti laici. Con le lacrime agli occhi, sentiamo raccontare i begli atti dei nostri giovani: conquiste personali, il minuto di silenzio del Venerdì Santo ottenuto in pieno laboratorio. Noi ammiriamo questi giovani: saremo dunque meno audaci, meno capaci di porre davanti agli uomini l'augusto volto del Maestro? Confessiamo che spesso i nostri laici ci superano e sanno, meglio di noi, riscaldare le anime al loro contatto. Perchè? perchè la loro spiritualità li porta a ciò, e la nostra non abbastanza. La nostra spiritualità non ci dona sufficiente urgenza di parlare di conquistare, essendo troppo separata dalla nostra vita.

Voi ricusate dunque d'opporre «vita apostolica» a «vita spirituale»?

Nel modo più assoluto! Non soltanto non c'è opposizione, ma vi è un intimo legame. Taluni capiscono ancora che la vita apostolica esige una mistica, come dianzi abbiamo detto. Pochi capiscono che questa stessa vita apostolica promuove, porta la vita spirituale. A seguire certi autori e certi consiglieri, si direbbe che vi sia tra esse un antagonismo fondamentale, il quale può essere ridotto solo a forza di prudenza, di protezioni, di precauzioni. La spiritualità che essi preconizzano sembra essere, in grosso, una spiritualità da «separati»: bisogna accumulare, durante i cinque o sei anni di seminario, tutto ciò che si può di vita interiore, per mezzo degli «esercizi spirituali»: e poi cominciano i pericoli... Si salvaguarderà tutto quel che si potrà, si cercherà di non perdere troppe riserve ammassate, com'è quasi fatale nella vita attiva. E per questo si creeranno isolotti, oasi quotidiane, protetti il più possibile contro l'intrusione della vita esterna, che necessariamente vuota e indebolisce.

Noi. non intendiamo nè deprezzare il valore degli esercizi spirituali, nè intraprendere una discussione sul valore dell'«orazione diffusa», contrapponendola all'orazione del mattino. Non è affar nostro. Pensiamo però che questi esercizi di pietà sono infinitamente più pieni, più vivificanti, quando si basano sulla preziosa leva della passione di salvare le anime e di far conoscere Cristo. Si appoggino alla nostra vita apostolica, vivano di essa, e la nostra vita apostolica vivrà di essi. Se nell'orazione io vedo solo l'apertura della mia anima su Dio e la mia personale ascesa, non sono sicuro di essere eternamente sedotto da questa prospettiva e potrò sempre ritrovarvi il mio io, il semplice desiderio d'una formazione personale da compiere. Se invece penso a Dio che non è amato, adorato: se penso a tutte le anime, alla loro miseria, o alla loro fame, tutta la ragione d'essere della mia vita e della mia vocazione sacerdotale mi innalzerà verso di Lui. E la mia orazione atterrerà senza sforzo, mezz'ora dopo, nell'azione della mia giornata.

Mi si dirà che c'è pericolo d'esteriorizzarsi, e per certuni quello di lasciarsi andare ad eccessi di zelo. Naturalmente! ma si faccia dunque il conto delle energie sacerdotali perdute, delle vite di preti interamente compromesse, e si vedrà forse che vi sono più ali infrante da troppo saggi consigli di prudenza, dai ragionamenti o dalle sghignazzate dei compagni più anziani, dagli scoraggiamenti che non si seppero impedire, dalla negligenza che ha lasciato disimpiegate giovani forze, che non dalle intemperanze di zelo o dalle esagerazioni apostoliche. Disgraziatamente, vi sono in queste vite perdute più indifferenti che consumati, ed è questo lo spettacolo desolante. Si parla sempre dei peccati d'azione: non si pensa mai ai peccati d'omissione. Ebbene, i peccati d'omissione delle generazioni sacerdotali che ci hanno preceduti, ed anche della nostra, chiudono i conti col 90% di perdita delle nostre anime parrocchiane.

Quel che ci rattrista è vedere certi confratelli (che sappiamo animati da eccellenti intenzioni e desiderosi del bene) sistemati in una sorprendente tranquillità d'animo, di fianco a migliaia d'anime che attendono da essi la salvezza. Donde proviene quell'apatia? Eppure, essi sono fedeli alla regola, non tralasciano nessuno degli esercizi di pietà previsti sin dalla loro uscita dal seminario. Ne abbiamo persino visto uno che, per non derogare dal programma che si era fissato, rimandava rigidamente indietro un parrocchiano venuto a domandargli un consiglio dopo una giornata di lavoro.

Sembra strano che il contatto con Dio diminuisca la fiamma apostolica. Non esagerate, forse?

Ecco: quel modo di concepire la vita spirituale al quale alludevamo non è un contatto con Dio, per parlare con esattezza. È un semplice ritualismo, una fedeltà materiale ad esercizi o a lavori. Non c'è più, a dire il vero, orazione, contemplazione, unione a Dio: c'è abitudine, andazzo. Costoro sono tranquilli nell'anima e nella coscienza sin dal momento in cui hanno finito il loro tempo di guardia, soddisfatto il compito loro assegnato e seguito a puntino il loro regolamento personale. È rattristante che ci si possa sedere tranquilli e credersi sdebitati verso Dio, appena si sono compiuti gli esercizi di pietà o sbrigati onestamente gli affari correnti, mentre le masse restano pagane e tutte le intelligenze, tutti i cuori di preti non sono di troppo per esaminare problemi urgenti e cercarne la soluzione. È rattristante che a questa rovina possano assistere dei preti, e che essi pensino di santificarsi senza tentare di fermarla...

Come chiamare «buon prete», «santo prete», qualcuno che non avesse la passione delle anime, solo perchè è regolare, puntuale, e giudica tutte le cose quietamente, spingendosi sino ad eliminare in sé stesso i problemi che dovrebbero attanagliarlo e impedirgli di dormire? Non è la sua vita spirituale a renderlo così, ma una vita spirituale immiserita, senza profondità, dove il «caritas Christi urget nos» non trova posto: una vita spirituale che non è «sacerdotale».

Noi non possiamo ammettere che per un prete l'ideale della vita consista in un'esistenza senza vicende, senza complicazioni, dove tutto si accomoda grazie ad una saggia diplomazia, magari a spese delle anime...

Era la sera dell'ordinazione d'un giovane sacerdote. Il suo parroco, venuto a far visita alla famiglia, si ritenne in dovere di dargli qualche consiglio e di formulare qualche augurio sulla soglia di quella giovane vita sacerdotale:
— Vedi, mio caro Pietro... Tu stai per iniziare il tuo ministero. Ebbene, io ti auguro una bella vita: una vita come la mia. Io sono sempre riuscito bene: non ho mai avuto difficoltà, complicazioni... Ed eccomi parroco di X, in un bel posto che molti confratelli m'invidiano. Sai come ho fatto? Ho sempre evitato le storie.
— Come San Paolo! — bisbigliò il giovane prete all'orecchio d'un amico seminarista.

Povero ideale! Quello del funzionario mediocre. Lo si trova in tutti i meccanismi dell'amministrazione civile e rende sclerotico un paese. Ma da noi non si dovrebbe mai incontrarlo, perchè è agli antipodi dell'ideale che ci viene dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli: e rende sclerotica la Cristianità. Non proviene in parte dal fatto che non si sono abbastanza legate, «vita spirituale» e « vita apostolica »? dal fatto che non si è protestato abbastanza contro il peccato di pigrizia, contro la mancanza di zelo? dal non avere abbastanza mostrato che, per un prete nel ministero, la santificazione è essenzialmente legata all'apostolato? che il prete non può santificarsi senza essere apostolo, che i suoi esercizi spirituali devono adattarsi alla sua missione apostolica come alla sua propria ascesa verso Dio? È necessario che il nostro amore della tranquillità non possa sentirsi garantito — per non dire canonizzato — dai falsi dogmi della opposizione fra vita apostolica e santificazione.

Dovete però ammettere che certe forme della vita apostolica contrariano parecchio la vita spirituale!

D'accordo! ma sono appunto quelle meno propriamente «apostoliche» e «sacerdotali»: cinematografo, teatro, sport, lavori manuali, giuochi, passeggiate, e tutte quelle pratiche amministrative in cui ci trascinano le opere. Questi lavori sono in una linea che non è precisamente quella della nostra vocazione: sono lavori da laici. Vi si può certamente trovare materia per abnegazione e devozione, e quindi occasione di santificarsi; ma in se stessi distraggono dal soprannaturale, e chi vi si dedica ha bisogno di difendersi contro l'attivismo naturale e di vegliare attentamente, per mantenere il contatto con Dio.

Tutto questo serve anche se si tratta di quell'apostolato diretto che noi rivendichiamo come nostro vero apostolato. La sua sorgente è anzitutto nel desiderio, nel bisogno di portare Cristo. Quante volte l'apostolo capirà che il suo amore non è all'altezza di quel che dovrebbe essere, perchè non gli risale abbastanza naturalmente dal cuore alle labbra! Ora, in queste constatazioni di deficienza, in questi dolori d'impotenza, non c'è per il prete un meraviglioso stimolante? Senza dubbio un pomeriggio trascorso a prendere in visione pellicole, a dar calci a un pallone, a sollecitare l'aiuto di qualche benefattore, è facilmente deprimente e minaccia di trascinare l'anima agli antipodi della contemplazione. Ma quando si passano ore ed ore ad attendere al varco le confidenze delle anime, a parlare loro di Dio, a stabilire con esse un contatto spirituale, a svegliare negli indifferenti l'inquietudine religiosa, non si è naturalmente ricondotti ai piedi del Maestro? Chi di noi non è uscito migliore, dopo lunghe ore passate nel confessionale? Chi di noi non si è sentito l'anima più vibrante e il cuore più caldo, dopo la tale riunione di militanti o la tale adunanza in casa di un cristiano? Quanti sermoni sono stati per noi, mentre li preparavamo, la migliore meditazione? Tutto questo insieme fa vivere in un'atmosfera divina: è un perpetuo stimolante per la vita interiore. Non si può dire che la contemplazione vi trova ciò che fa per essa? (non la meditazione che si addice ai certosini, ma quella che si adatta agli apostoli).

Siccome la vita attiva, quella che noi conduciamo, consiste essenzialmente nella distribuzione delle cose di Dio, i teologi credono che essa abbia il privilegio «d'un legame diretto e d'una specie di continuità con la vita contemplativa» (Lemonnier - «Vita umana»): perchè la sua sorgente è normalmente nella pratica di quella Verità — in cuius consideratione et amore delectatur — che l'ApostoIo è felice di guardare e di amare (S. Tommaso II.a II.ae, q. 181 - art. 3).