LA NOSTRA CULTURA

E LA NOSTRA PREDICAZIONE

 

Abbiamo sfiorato il soggetto della predicazione: sarebbe certamente bene che l'approfondissimo un poco.

Sarà facile: facile da dire ciò che bisogna fare e non fare, beninteso, perchè la facilità di adattamento è un'altra cosa... Ecco anzitutto una eco recentissima, che è di casa nostra:

— Ho udito due prediche fatte sullo stesso soggetto da due miei giovani collaboratori formati dal seminario: un affilamento fatto di fresco. Per essere due principianti, se la sono cavata a meraviglia: c'era della vita, una netta preoccupazione d'adattamento; ma purtroppo, si adattavano a ciò che credevano d'indovinare. Prendevano i loro paragoni dalla vita come l'avevano conosciuta. Il tema era: «Il nostro atteggiamento verso Dio Padre. Entrambi si sono creduti in dovere di raffrontare i rapporti con Dio e i rapporti col nostro padre terreno. Uno di essi cominciò a raccontare con grande commozione la morte del suo genitore. L'uditorio pareva avvinto. Ma tutto ciò era d'un altro mondo, aggiustato come un romanzo. E mentre egli parlava, dallo sgabello del celebrante io giravo lo sguardo dagli ascoltatori alle ascoltatrici e mi chiedevo che cosa mai potessero rappresentare quei racconti per i miei giovani operai e per le mie giovani operaie. Egli parlò loro della fierezza del nome, della condiscendenza del padre, del rispetto di cui esso gode nella casa. Com'era lontano dalla realtà quel punto di partenza che voleva appoggiarsi su di essa! ... Nella critica che seguì, fece loro osservare che sarebbe stato loro più facile basarsi sulla paternità divina, per dare l'ideale della paternità umana, invece di prendere un raffronto da questa per far capire quella di Dio. Ricordavo, per esempio, che in una delle mie sezioni giociste, neanche una delle mie militanti aveva un padre di cui potesse essere fiera.
Uno aveva detto alla figlia che compiva 21 anni:
— Va' a guadagnarti la vita sul marciapiede.
Un altro era un beone: un terzo aveva abbandonato la moglie: un altro ancora rendeva quotidianamente insopportabile la vita in casa, sino alle tre di notte. E così via! E i miei bravi preti, con animo tranquillo, volevano dare un'idea di Dio fondandosi sulla grandezza paterna!!... È vero che fra il popolo, e in linea generale, esistono bellissimi sentimenti di amore paterno; ma non sono quelli che i miei giovani predicatori sottolineavano. Essi parlavano secondo la loro educazione, non secondo quella degli uditori.

Suppongo che, da parte dei vostri laici, dobbiate udire riflessioni che vi illuminano sulla portata delle vostre prediche.

Certamente: tanto più che noi le provochiamo, queste riflessioni, per assestare il nostro modo di predicare. Come sarebbe utile curvarsi su queste eco!
Un laico qualunque, interrogato sulla predicazione parrocchiale (ed anche senza essere interrogato, lo sapete benissimo), fa le sue lamentele:

— Piace abbastanza, in generale, sentire qualche sermone; ma i sermoni sono spesso incomprensibili per la massa. Non si commenta sufficientemente il Vangelo: questo sarebbe per molti una rivelazione. Ci sono molte prediche, tuttavia ben preparate, ma in cui non si sente l'anima, il cuore del prete. Non crediate che la gente si aspetti le belle frasi: questo no. Ciò che commuove di più è ciò che esce dal cuore. Noi sentiamo che troppi preti non predicano col cuore come gli Apostoli.
Ed ora, alcune riflessioni di una giovane di 26 anni: è una popolana, ma ben istruita, intelligente, di famiglia non cristiana, convertita da due anni, dopo altre due sorelle:
— Dopo il Vangelo, il prete ci parla di Cristo e della Sua religione. Dovrebbe farlo come lo faceva Cristo stesso, e cioè semplicemente, con parole alla portata di tutti,. e non già cercare frasi complicate che non commuovono l'uditorio. Anche il soggetto deve essere semplice (a meno che l'uditorio non sia di un'intelligenza superiore), e pieno d'amore, di verità. Egli deve scuotere i cuori e le anime, non le intelligenze. Cristo non vuole che la Sua religione sia qualche cosa di tiepido: perciò non bisogna aver paura di scuotere e di sconvolgere quei cuori e quelle anime. E perciò anche non bisogna che il prete — come lo si sente talora — prenda la parola perchè è l'usanza e tratti un soggetto perchè deve farlo. In quel momento, l'uditorio non è affatto commosso: se ne approfitta per soffiarsi il naso, per tossire, e il «discorso» rimane senza effetto. Bisogna che il prete sappia in quel momento che tutta quella folla che ascolta sta a sentire Dio che è in lui e che del resto egli porta la parola di Dio come i primi apostoli, e che tutto ciò che egli dice serve a guadagnare anime a Cristo, il quale ha tanto sofferto per salvarci. Si dovrebbero trattare argomenti dell'unione cristiana, della fraternità dei cristiani, della loro intesa che deve realmente esistere: tutto ciò non ha bisogno di grandi sviluppi, purché sia sincero e sentito...

È troppo facile scartare queste lamentele col rovescio della mano, dicendo che la gente ha lo spirito critico, che non è mai contenta, ecc... Essa è invece più benevola di quanto si creda. Su questo argomento, assai più dei fedeli, hanno lo spirito critico i seminaristi e i preti.

Un seminarista e sua madre ascoltavano un giorno la predica d'un viceparroco, sonnifera ed irritante quanto mai (l'oratore aveva già ripetuto una quarantina di volte, come un ritornello: «E il Papa, che è a Roma...». Uscendo, il seminarista non risparmiò le facezie; e la madre gli rispose:
— Che vuoi? Quel poveretto ha predicato come sa.

No: quando si lamentano, c'è veramente di che.
In realtà, si lagnano poco; anzi, fanno di meglio: non ascoltano. Quelle onde sonore che si rovesciano sul loro capo colano come acqua tiepida: non si sentono più, non si capiscono più. Sono parole della nostra lingua: ciascuno potrebbe comprenderle, ma non ne ha più la forza.
— Il ronzio della predica...
Ma come! Deteniamo la parola da Dio, abbiamo ricevuto la missione di annunciare il Verbo, ci sono stati affidati i Suoi rimproveri, che in bocca agli Apostoli hanno fatto risuonare il mondo («In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae ver ba eorum») ... ed ecco quel che ne facciamo: un chiacchierio distinto, che fa dormire le signore e scappare la gente! Non si rimprovererà certo alla nostra predicazione il suo vigore! II rosa e il grigio sono le sue tinte predilette... Ora esponiamo con freddezza classica una tesi dogmatica, ora ci espandiamo in pie esclamazioni, in cui l'abbondanza degli aggettivi annega il sostantivo e il verbo...

Ci si conceda di citare abbondantemente un laico: (Rivero, «Incarnare il messaggio di Dio» - pag. 7-9)

“Il signor parroco è salito sul pulpito ed ha cominciato a parlare: anzitutto del bilancio parrocchiale, per l'anno scorso. Povero bilancio! purtroppo la fede se ne va e viviamo in tempi tristi. Poi è cominciata la predica, sull'Epifania. Grande mistero: ma com'è semplice! Tre storie, tre figure, i Re Magi guidati dalla stella, le nozze di Canahan, il battesimo in riva al Giordano... Momenti solenni, ma che si lasciano così facilmente vedere e capire nella loro realtà concreta... Ma no: le parole, qui, sono astratte; una stella simbolica guida dei Magi irreali, non c'è più quella piccola festa di nozze di brava gente non molto ricca, quella sponda di fiume fra le canne, dove la voce del Padre risuona improvvisamente: il vino del banchetto non è più vero vino che si beve, ma un vino mistico... Non si tratterà che di sacre estasi, di pie gioie; e sentiremo tutti i vocaboli della tradizionale eloquenza sacra, tutte le parole che lentamente sono uscite dalla vita quotidiana, o vi figurano solo più con un significato quasi vuoto. Il parroco esclama: «O mio amabile Salvatore!»; ma quando Bossuet diceva quell'«amabile», era quella la stessa parola di cui l'innamorato si serviva per colei che aveva scelta: la donna che oggi ascolta il parroco la usa per il portalettere o per il droghiere che le hanno reso un favore... Così si svolge la predica, nelle somme altitudini dove l'umile realtà concreta non potrebbe penetrare. Così segue il suo corso, portato sulle ali d'una pronuncia molto distinta e d'un linguaggio altrettanto elevato, molto al disopra della vita d'ogni giorno, delle immagini e dei pensieri che occupano la mente dei fedeli. Essi, però, hanno piano piano ripreso chi la conversazione a bassa voce con un vicino, chi la semi-sonnolenza attraversata dalle preoccupazioni delle spese giornaliere, chi la meditazione sulle notizie dei giornali. E la verità — presentata in abito da festa, con parole ed accenti riservati alla domenica — a messa finita se ne andrà a finire in un armadio con le vesti che non sono fatte per la vita e per la fatica quotidiana”.

Dov'è l'eloquenza familiare e veemente dei Padri della Chiesa?
— Non si potrebbe più predicare così! I fedeli scapperebbero.
Macchè! E quand'anche taluni si spaventassero d'un linguaggio troppo vero, poco male se fuggono, purché si avvicinino altri che non vengono appunto perchè il nostro linguaggio non sembra loro abbastanza vero.

Vi supplichiamo di riflettere su questo: «noi abbiamo l'abitudine di rivolgerci a gente che crediamo conquistata in anticipo». Di conseguenza, le snoccioliamo frasi già fatte, ripiene di citazioni implicite della Sacra Scrittura, gonfie di parole alle quali la teologia ha dato un senso preciso e che ci soddisfano; e ridiscendiamo dal pulpito avendo, malgrado tutto, la vaga impressione che tutto ciò non ha dato gran frutto, che siamo stati ascoltati distrattamente, che nulla vi sarà di mutato nella vita dei nostri uditori. Ma ne rigettiamo la colpa sul materialismo generale e sull'inattitudine della nostra gente alle bellezze della Rivelazione che noi le predichiamo... Non bisognerebbe anche (e soprattutto) fare il «mea culpa» sul nostro petto? Se salissimo sul pulpito persuasi d'aver a che fare con un pubblico in maggioranza sprovvisto di ogni cultura religiosa, pochissimo istruito, estraneo ai concetti che a noi sono familiari e alle parole che noi usiamo, non cambieremmo forse modo?

Le nostre parole? il popolo le sente sempre, ma non ne ha mai penetrato il senso, e tanto più resta impermeabile ad esso, in quanto non lo cerca più, perchè l'ha sentito mille volte... Le nostre convinzioni? Noi crediamo che esso le condivida e sia d'accordo con noi; ma in realtà esse sono assai vaghe e soggette a tutti gli ondeggiamenti: la gente avrebbe bisogno di imparare tutto, di sentir di nuovo affermare tutto, e con parole nuove, le quali farebbero «colpo» su di essa e la collocherebbe di fronte a realtà che essa non suppone.

Che cosa bisognerebbe fare? porci dinanzi alla gente come dinanzi a quel gruppo di neofiti che essa realmente è, pensando a quelli che potrebbero trovarsi in chiesa per caso e che ignorano tutto. Non sarebbe il mezzo per trovare le parole e l'accento che commuoverebbero tutti?

Un predicatore di ritiri parrocchiali ebbe recentemente nel suo uditorio un amico incredulo, che era venuto ad ascoltarlo per la prima volta. All'uscita dalla predica, questi gli disse:
— Bravo! Tu ti destreggi bene; ma io ti sfido a parlare così ad un uditorio dove fossero 300 persone come me: non ci riusciresti. In fondo, la tua non è malizia, perchè parli a gente già convinta. Se tu avessi a che fare con un pubblico del mio genere, saresti costretto a modificare tutto.

Ci sarebbero senza dubbio risposte da dare a questa osservazione. È evidente che in ogni predica non si può ricominciare dai primissimi elementi: bisogna andare avanti. E in un ritiro parrocchiale, una sera per settimana ci si può permettere di andare al di là dell'elementare. Si può però trarre profitto da questa osservazione; se si pensasse costantemente a coloro che, nell'uditorio, hanno necessità di quelle luci o di quel trasporto che troppo ingenuamente noi supponiamo in tutti, non si modificherebbe forse tutto, ma si modificherebbero molte cose: si vedrebbe più chiaro, più ur­gente, e soprattutto più concretamente, più oggettivamente.

Vane parole lontane dalla vita, formule già pronte, cantici in cui le frasi non possono rappresentare niente, menzogna delle « sacre estasi » promesse a tutti, cose stereotipate, banali, tutto ciò che non è Chiesa, che non è Verità, ma che nondimeno maschera il volto della Chiesa e della Verità: tutto ciò per cui gli uomini hanno perso i! senso della presenza permanente in mezzo ad essi d'un Dio incarnato: ecco quel che, una volta di più, con tutta l'anima dichiariamo di detestare, perchè in questo oblio dell'Incarnazione, in questo cancellamento del viso di Gesù e della Sua presenza, risiede la più profonda miseria del mondo moderno (Rivero 19-20).

È indubbiamente molto difficile essere concreti, non è vero?

Lo credete? Eppure, sarebbe tanto facile, se lo volessimo! Basterebbe pensare che abbiamo a che fare non con «uditori», ma con gente in carne ed ossa, la quale ha una certa vita concreta, una certa conformazione di spirito, certe preoccupazioni. Bisognerebbe tenere presente, quando parliamo della Croce, che vi sono lì esseri che soffrono: quando parliamo della carità, che vi sono lì cuori che amano: quando parliamo di giustizia e di virtù sociali, che c'è lì un popolo provato dal loro tradimento nel mondo moderno: quando parliamo di Dio e del destino, che vi sono lì spiriti oppressi dalla nullità dell'esistenza: quando parliamo di Cristo, della Madonna e dei misteri, che tutto deve avere, ed ha realmente, una corrispondenza nella vita quotidiana di coloro che ci ascoltano.

Spetta a noi trovarla. Esiste una lunghezza d'onda, sulla quale la Verità può giungere alla loro comprensione e può commuoverli. Tutto sta a scoprirla.

Al di fuori di questa lunghezza d'onda, niente da fare! Essi udranno solo un rumore di parole: non riceveranno nulla. Essa si scopre se si sta attenti a cercarla nella trama stessa della loro esistenza quotidiana, e quindi se si vive «col popolo».

Allora noi abbiamo buon giuoco, sì, perchè siamo i soli che diano un significato alla vita, i soli che apportino alla sofferenza un rimedio diverso dalla rassegnazione o dalla rabbia, i soli capaci d'esaltare l'amore come esso lo merita, di dare al lavoro il suo valore totale, di richiamare al sacrificio, al dono di sé stessi, ecc... Questo presuppone però che siamo veramente apostoli, che non ci ascoltiamo parlare, che non predichiamo per liberarci da un faticoso obbligo o per avere la soddisfazione d'esprimere elegantemente frasi ben misurate, oppure di far pompa della nostra scienza. Una preoccupazione fissa del risultato da ottenere, fondata sulla conoscenza reale della vita dei nostri uditori: ecco ciò che può dare la parola giusta ed il tono che convince.

Un piano armoniosamente costruito può rendere servigi; ma in fondo è secondario. Certe fioriture sono bagattelle. E persino la ricerca di certe precisioni dottrinali rappresenta un'inutilità per il nostro pubblico. Noi siamo, purtroppo, meglio formati a trattare l'Incarnazione e la Redenzione che a predicare il messaggio di Cristo. Ma non è impossibile sorpassare questa formazione: e mettendoci a contatto con le esigenze reali dei nostri fedeli (o infedeli) possiamo rapidamente imparare che cosa c'è d'essenziale nell'immenso campo delle verità da dirsi. Bisogna dirigersi verso questo essenziale e sfruttarlo sino in fondo: bisogna sapere quali sono i «luoghi comuni» in corso nell'ambiente popolare, quel che si dice, quel che si ripete, gli «slogan», ciò che traduce le condizioni degli spiriti. Taluni di questi luoghi comuni sono falsi e malefici: errori da correggere. Ve ne sono altri che esprimono più o meno felicemente aspirazioni alla giustizia, alla solidarietà, alla bontà, e via dicendo: punti di inserzione per una predica che risuonerà nei cuori, perchè avrà preso a prestito la strada dei pensieri familiari. Per esempio, come si è potuto predicare dopo la liberazione senza tener conto dello stato degli spiriti, senza utilizzare e trasporre le parole «fascismo», «resistenza», «liberazione», ecc... ? Come non ricavare profitto dai racconti dei reduci di Büchenwald, Ravensbrük e d'altri campi, per far capire ciò che può essere, ciò che forzatamente è un mondo senza Dio? ...

Quando siamo chiamati a prendere la parola per un matrimonio (e dovremmo prenderla per tutti i matrimoni della nostra parrocchia), perchè, invece del pasticcetto sedicente dottrinale o delle convenienze mondane, non parliamo semplicemente dell'amore? Abbiamo davanti a noi due giovani cuori, più uniti di quanto lo saranno mai: perchè non fondarci su quell'emozione? Sono convinti di amarsi per tutta la vita: quale bell'occasione per renderli ostili al divorzio! Sono incerti dinanzi all'avvenire: come non suscitare la preghiera che deve sgorgare dal loro cuore? E dietro a questi giovani sposi sono altri giovani, i loro amici, pronti a vibrare ai medesimi pensieri. Noi cercavamo una lunghezza di onda comune: eccola, è l'amore! Ci accontenteremo di leggere un vecchio testo dove si tratta delle «traversie che dovranno affrontare nella vita»?

Parliamo il loro linguaggio e resteremo stupiti nel vedere quanti ne attireremo. Potremo poi chiedere a tutta quella gente di seguire con noi le preghiere, il testo della messa. Tutti specialmente i giovani — pregheranno per gli sposi. E quando, a loro volta, si sposeranno, verranno a «cercare il prete che ha parlato durante il matrimonio del loro compagno».

Che cosa pensate dei «piani di predicazione» che certe parrocchie o certe diocesi stabiliscono per tutto un anno, e magari per un ciclo d' anni?

È necessario avere ogni anno un piano precedentemente stabilito delle prediche domenicali: ma a noi sembra che assai spesso si commettano errori nella composizione di quel piano. Per esempio, al primo anno si prende il Credo, al secondo i Comandamenti, ecc.... È una cosa magnifica per la logica dello svolgimento e per la soddisfazione della nostra mente; ma troppo facilmente vi si dimentica che tutti i punti del dogma e della morale non sono così necessari ed urgenti per i nostri fedeli.. Vi sono temi che è quasi inutile trattare, mentre altri sono vitali e meritano che vi si calchi su. Ce ne sono anche d'urgenti per un anno e meno urgenti per l'anno seguente.

È quel che ci è apparso nella nostra parrocchia: ecco perchè all'inizio d'ogni anno redigiamo un piano, tenendo conto di ciò che ci sembra urgente, assai più che della logica di un'esposizione generale.

Così il primo anno volevamo lanciare la nostra gente alla conquista: durante il mese d'ottobre le parlammo dell'«apostolato». Constatavamo che i fedeli non capivano niente nella messa: trattammo dunque della messa, evitando il fare scolastico che non li interessava e i punti di diritto che già conoscevano. Poi abbiamo voluto far prendere loro nozione della loro appartenenza alla Chiesa: trattammo questo argomento dal Natale alla Quaresima. E così di seguito, abbiamo cercato i soggetti; o per essere più esatti, abbiamo avuto solo da guardare e da ascoltare, perchè i soggetti si presentassero a noi. Da cinque anni abbiamo così parlato del lavoro, della famiglia, della grazia, dei sacramenti (i principali), del Vangelo (per tutto un anno), della preghiera, della questione sociale, dei punti principali della morale, dell'azione cattolica.

C'erano «delle lacune» nel nostro insegnamento? Naturalmente! E quelli che passano un anno sul pulpito per trattare dell'autenticità dei Vangeli, oppure degli errori gnostici, non lasciano forse lacune nella mente dei loro parrocchiani? E quelli che percorrono a briglia sciolta tutti i capitoli del catechismo, senza lasciarne nemmeno uno?

Persino nell'insegnamento del seminario, non ci sono trattati che vengono dati da studiare durante le vacanze, perchè sono meno importanti? ... Che cosa facevano dunque i Padri della Chiesa, sant'Atanasio quando insisteva sull'arianesimo, sant'Agostino quando combatteva il manicheismo e il pelagianismo? Tenevano conto dell'opportunità. E noi — di fronte a questa eresia moderna, la più formidabile di tutte, che si chiama il materialismo o il marxismo — quanto tempo spendiamo per mettere in guardia i nostri fedeli e per dire loro che cosa bisogna pensare? D'altronde, è vero che, in seminario, ci hanno magnificamente insegnato a respingere l'arianesimo o il protestantesimo: non ci hanno però detto granché sulla teoria di Carlo Marx...

Ma quando ci rivolgiamo all'«ambiente parrocchiale» —quello che, purtroppo, abbiamo quasi sempre — c'è bisogno di adattarci così nella forma e nella sostanza?

Anche rivolgendoci all'ambiente parrocchiale, non dovremmo accontentarci delle tiepide omelie che troppo spesso facciamo. Qual è il male proprio di questo ambiente? La sclerosi, il torpore, la soddisfazione di sè, la mancanza di carità, di preoccupazione apostolica, lo spirito di setta, il formalismo. Bisogna sempre tenere presente questo ed il fatto che tali miserie nuocciono alla conquista missionaria: parlare poi di conseguenza, attaccare incessantemente sugli stessi punti, approfittare delle feste liturgiche, degli avvenimenti, ecc., per ampliare gli orizzonti, ridare il senso del prossimo, criticare l'egoismo e la superbia.

Non abbiamo forse tutto il Vangelo per ispirarci in questo senso? I più veementi discorsi di Nostro Signore non sono forse diretti contro le pecche del nostro ambiente parrocchiale? ... Si direbbe spesso che abbiamo paura di dir­gli le sue verità. Quante volte raddolciamo la veemenza delle nostre rimostranze, aggiungendo restrizioni oratorie di que­sto tipo: «Naturalmente, fratelli miei, ciò che sto dicendo non è per voi ...». Quanti rallegramenti rivolgiamo a quel buon pubblico, che è già sin troppo portato a schiacciare un sonnellino nella sua soddisfatta beatitudine! E quanti ringra­ziamenti (dopo una festa, specialmente)! «Ai nostri cari uomini così fedeli... alle devote signore dell'Associazione, le quali... ai nostri valenti scouts, senza i quali... alle figlie di Maria, che hanno voluto...». Ce n'è per tutti!
Sì, certo, bisogna ogni tanto incoraggiare i fedeli; e noi non difendiamo qui l'invettiva; non crediamo però che sia necessario cullarli con elogi e nutrirli dj. sciocchezze. Troppo spesso trattiamo il nostro pubblico come un bimbo viziato!
— Se il sale diventa insipido, con che cosa saleremo?
— Con lo zucchero — rispondeva ironico Claudel.
Ahimè! Quanto zucchero, nelle nostre prediche! e quante leziosaggini!
— Per chi ci prendono? si domanderebbero gli uomini, se ci fossero.
Ed avrebbero ragione. La gente viene per altro. Anche se si è servito bene, non ci si tiene poi tanto ad essere incensati: «Dite, noi siamo servitori inutili...». Più che di un vano compiacimento per il poco che si è fatto, si ha bisogno di un'esortazione urgente all'immenso che rimane ancora da fare.
Noi non siamo abbastanza virili: non abbiamo una suffi­ciente visione dell'opera da compiere presso i fedeli e per mezzo dei fedeli. Non abbiamo abbastanza la passione delle verità che predichiamo e delle anime a cui predichiamo. Ecco perchè il nostro vocabolario è così povero, così sbiadito. Il modo di rinvigorirlo sarebbe quello d'adattarci costantemente in spirito a  coloro che si trovano lì, di bandire spietatamente — a misura che ci si presentano — le parole che dipendono solo dal folklore ecclesiastico e che nulla dicono alla nostra gente: abolire il convenzionale, il «bell'e fatto», per usare unicamente i vocaboli che hanno per essa un significato.

Che cosa pensate dei sermoni fatti di solito nelle missioni parrocchiali?

Bisognerebbe forse che dicessimo prima quel che pensiamo delle missioni parrocchiali stesse. Noi pensiamo che queste missioni, così come sono praticate per la maggior parte del tempo, non sono più aggiornate: o per lo meno, dovrebbero adattarsi seriamente all'ambiente a cui mirano.

Quel sistema di predicazioni in cui missionari, per alcune settimane o durante una Quaresima, venivano dal di fuori per tentare di smuovere una parrocchia, è stato meravigliosamente concepito e realizzato dai suoi iniziatori: san Vincenzo de' Paoli, il beato Grignon di Montfort. Esso si addiceva perfettamente al pubblico di quel tempo, che era in realtà formato in maggioranza da gente che aveva una fede ben radicata, ma che aveva rallentato la pratica o la condotta. Che cosa pretendevano i missionari? Risvegliare in quella gente la scintilla assopita sotto la cenere, mettere la sua coscienza di fronte ai doveri e ai pericoli di eterna perdizione: insomma, ricondurre alla vita cristiana gente che non aveva cessato d'essere cristiana. Se già nel secolo scorso e all'inizio di questo c'erano degli increduli parziali e persino degli atei, intorno all'ambiente parrocchiale composto di credenti, tutti erano però preoccupati dai problemi religiosi. Bastava che fosse annunciata una missione, perchè molti si sentissero invitati a venirci, a cominciare il loro esame di coscienza. C'era persino, un po' dappertutto, della brava gente che aveva abbandonato la pratica religiosa e che trovava nella missione l'occasione attesa di ritornare ai doveri imparati e praticati durante l'infanzia. Questo accade ancor oggi in provincia, nelle regioni di tradizione cristiana.

Nell'ora attuale, questo non si verifica più nei nostri immensi sobborghi e nelle nostre grandi parrocchie dei dintorni. Quando viene annunciata una missione, anche con affissi e circolari, essa tocca solo coloro che lo vogliono, e di solito il cerchio non è molto ampio: son quelli che, o in un modo o nell'altro, giravano già prima intorno alla chiesa. Gli altri, il grosso della massa, non si accorgono neppure che si svolge la missione. Ben altri affissi al muro hanno visti, e ben altri manifestini nella cassetta delle lettere! Quelle riunioni in chiesa non sono fatte per loro. Bisognerebbe andare a portar loro la parola a domicilio, come pure l'invito: e se si vuole radunarli in gran numero, non si scelga la chiesa, ma il caffè o il cinematografo. Se arrivassero così a parlare loro, i missionari dovrebbero modificare i soggetti di predicazione: dovrebbero sapere che 1a pretesa «preoccupazzione religiosa» è un punto di partenza debolissimo: che la logica, come già dicemmo, commuove poco, non più delle «grandi verità», e che il punto d'inserzione della verità va piuttosto cercato nelle preoccupazioni comunitarie attuali...

Insomma, voi non credete affatto nell'opportunità delle missioni parrocchiali?

Esse ci appaiono quali mezzi che il clero parrocchiale ha a propria disposizione per variare ogni tanto il lavoro missionario. Non sono però più, nei nostri ambienti operai, quei grandi rivolgimenti periodici che furono un tempo. Ci sembra che per rivoltare una parrocchia ci vogliono altre cose, e specialmente molto più tempo... Perchè queste squadre missionarie non dovrebbero essere formate contemporaneamente oltre che da preti anche da laici uomini e donne, com'è formata in Italia la Compagnia di San Paolo? Dovrebbero dedicarsi ad una zona non solo per qualche settimana, ma per parecchi mesi, e magari per un anno o due. Si correrebbe meno, questo è vero. Non tutti i punti di una diocesi sarebbero toccati così presto; ma allorché una squadra missionaria lascerebbe un territorio, ci sarebbe un serio lavoro compiuto di fatto. Se non dovunque nello stesso tempo, però l'uno dopo l'altro, nascerebbero nuclei cristiani viventi, fervide comunità. Lo stesso clero parrocchiale, es­sendo stato integrato in quel lavoro di rinnovamento, vi avrebbe preso coraggio e si sentirebbe più aiutato, più cir­condato da un ambiente parrocchiale trasformato, ringiovanito.

In margine a queste riflessioni, ci si può chiedere sé, in­vece di provvedere tutte le parrocchie in modo da garantire loro un prete o alcuni preti, non ci sarebbe un migliore van­taggio lasciando deliberatamente dormire certi angoli, rad­doppiando durante qualche anno il clero di certe parrocchie. Si otterrebbero così terreni seriamente lavorati, coltivati, che servirebbero d'esempio agli altri e finirebbero per trascinarli; mentre invece, volendo attaccare su tutti i fronti, non si pe­netra niente e nemmeno si progredisce.

Non credete che le Congregazioni di missionari e i predicatori di vocazione possano aiutarvi molto in questo lavoro?

Noi crediamo, anzi, che soprattutto a queste Congrega­zioni dovrebbe spettare il grande lavoro missionario. Non sembrano fatte apposta per andare là dove non va il clero parrocchiale, per estendere la sua azione, per andare in cerca delle pecorelle smarrite che esso non può raggiungere? Ah, mio caro Padre! volete permetterci una frecciata? Mentre dovrebbero essere le Congregazioni di missionari ad andare in cerca degli smarriti per ricondurli sotto il vincastro del pastore, abbiamo l'impressione che siano i pastori (parroci e vicecurati) ad andare a raccogliere le pecore. smarrite o no per ricondurle intorno ai pulpiti da cui predicano i missio­nari... Non è forse esattamente quel che dovrebbe accadere. Oh, sappiamo che non è solo colpa loro, perchè le diocesi e le parrocchie li considerano appena come ausiliari chiamati per raddoppiare il lavoro ordinario: e ci sarebbe da parte loro un grave sforzo da compiere per riesaminare la utilizzazione dei religiosi e la divisione del lavoro. Ma rimane il fatto che le Congregazioni non realizzano pienamente lo scopo missionario per cui sono spesso state fondate.

Naturalmente non parliamo qui della mirabile opera svolta sul piano intellettuale da centri di studi come le Edi­zioni del Cervo, Economia ed Umanesimo, o l'Azione Popo­lare. Parliamo del lavoro da farsi in piena massa popolare, e crediamo che i religiosi, come il clero parrocchiale, devono compiere un'evoluzione, adattarsi, per collaborarvi, cia­scuno secondo la propria vocazione.

Mediante questo adattamento, credete all'efficacia della predicazione?

Sì, vi crediamo. E del resto, come potremmo non cre­derci, dal momento che si tratta della Parola di Dio? Pen­siamo però che, affinchè la predicazione sia viva ed efficace in ambiente popolare, bisogna inserirla in un contesto di canti, di inni, di manifestazioni esteriori che l'illustrino. Nulla entra nell'anima popolare se non attraverso il sensi­bile. Le parole, anche le meglio adatte, non bastano a fornire questo sensibile. Bisogna che siano sottolineate, nel corso del ragionamento, da fatti, da esempi (ma da esempi presi dalla vita quotidiana di coloro che sono lì!): e, prima della predica e dopo, da manifestazioni alle quali partecipi il po­polo. Ci siamo abbastanza spiegati su queste manifestazioni, quando trattavamo della liturgia: è inutile tornarvi su.

Con la predicazione, o in qualsiasi altro modo, arrive­remo a penetrare l'anima popolare soltanto a poco a poco. Ma la prima cosa da farsi è rendere libere le strade che vi conducono, cioè spogliarci di tutti gli ingombri portati dalla nostra cultura e dalla nostra formazione borghese.

Per molto tempo andremo a tastoni, indubbiamente, e commetteremo errori: molti di questi ci saranno però rispar­miati, se vivremo la nostra vita sacerdotale in stretto legame con le esigenze del nostro ministero, se sapremo lavorare in squadra coi nostri collaboratori e con tutta la nostra parroc­chia. Ma questo è talmente importante, che bisogna dedicarvi un nuovo colloquio.

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