Vedete altri impedimenti da abbattere sulle strade che conducono all'anima popolare?

Sì: tutti quelli che noi stessi innalziamo, senza neppur accorgercene, con l'espressione istintiva delle nostre tendenze personali.

L'anima popolare ha affetti ed avversioni, simpatie e diffidenze, suscettibilità. Bisogna conoscerle e non urtarle. Al popolo non piace che «gli si metta la mano sopra»: crede facilmente che lo si disprezzi e che gli si preferisca il borghese: partecipa a certe correnti di idee (specialmente politiche), alle quali — a torto o a ragione — è attaccato come a dogmi da cui dipende la grandezza della classe operaia. Questa suscettibilità deriva indubbiamente dalla sua mancanza di cultura, la quale gli dà un senso d'inferiorità di cui egli soffre. Bisogna tenerne accuratamente conto e non agire con lui come col borghese, al quale la cultura dà un senso di uguaglianza che gli fa sopportare più facilmente che non si pensi come lui, e che fa le debite distinzioni fra il prete e ciò che questi rappresenta.

Il prete non dovrebbe dunque manifestare nessuna preferenza politica?

La parola «politica» ha molti sensi nel linguaggio attuale. Il francese medio vede la politica dovunque: questioni sociali, economiche, patriottiche, professionali, tutto dipende dalla politica. È in parte falso, e spiacevole: ma è così. Là dove noi non vediamo che speculazioni d'idee, o espressioni di dottrine teologiche, si traduce «politica», nel senso militante della parola. Diremo che il prete apostolo dell'ambiente popolare deve astenersi dall'esprimere idee personali su questi problemi? Diremo piuttosto che in queste espressioni non deve mai far pensare al popolo che noi siamo «contro di lui», ma al contrario che siamo «con lui». Per questo, d'altronde, basta stare attenti ai suoi bisogni, alle sue sofferenze, ai suoi richiami a maggior giustizia e dignità, ed anche ai suoi pregiudizi (non per condividerli, ma per capirli e per vedere che cosa c'è dietro di essi).

A me non piacciono i complimenti, di cui diffido: ce n’è però uno che ricordo con gioia. Fu durante la predica della messa di mezzanotte, il primo anno in cui mi trovavo in parrocchia. Mi venne riferito che, mentre predicavo (parlavo dei poveri, mi pare), due astanti non abituati a venire in chiesa, due operai in tuta da lavoro, si bisbigliarono:
— Quello lì è per noi!
Oh, se tutti i nostri parrocchiani potessero pensare e dire altrettanto!

Del resto, qui sono in causa non soltanto le prediche. I discorsi che teniamo in conversazioni private devono essere sorvegliati nello stesso modo, perchè vengono sempre riferiti. Bisogna stare attenti a non dire nulla che possa essere male interpretato e che ci faccia respingere lontano dalle nostre pecore. Possiamo avere tutte le migliori ragioni del mondo di pensare in un modo o in un altro: non avremo tuttavia «ragione» d'esprimere quel pensiero, se esso deve urtare il nostro gregge e nuocere così al nostro ministero.

La nostra parte non è una parte di capi? non vi sembra di sminuirla con l'atteggiamento che preconizzate?

Il Papa e i vescovi sono i capi della comunità cristiana. Noi aspettiamo da essi (e con noi i fedeli) direttive che richiedono l'obbedienza. Noi, per parte nostra, siamo gli apostoli di uomini che non sono cattolici e che noi non dobbiamo comandare, ma guadagnare. Ed anche quando si tratta di coloro che frequentano un poco le nostre chiese, non possiamo disgustarli, assumendo a loro riguardo atteggiamenti autoritari.

Dicevamo dianzi che al popolo non piace che «si metta la mano sopra di lui». Traduciamo: non bisogna tenergli un linguaggio imperativo, parlare da padroni, dettare doveri ex cathedra. Bisogna far amare ciò che si ama: non è la stessa cosa! Bisogna convincere, trascinare. Noi abusiamo alle volte del “tamquam auctoritatem habens”. La Chiesa detiene l'autorità (questo è certo), l'autorità per dire il vero e il bene, il falso e il male. E non si tratta di tradirla adottando mezze misure, patteggiando: ma la si tradisce anche armandosi in suo nome d'una clava che disperde il popolo, le folle. Predichiamo alla massa i suoi doveri, sì, ma non esclusivamente, nè brutalmente, come si presenta un codice civile con sottomano il codice penale. Se si amerà il popolo, lo si capirà e si comprenderà come i suoi doveri siano difficili da compiere, e per quale; strada si potrebbe invitarlo a camminare verso il loro adempimento: si vorrà persuaderlo che il suo «bene» è legato al suo dovere, piuttosto che imporgli la “dura lex, sed lex”. A tale scopo vi sono formalità da prendere: non i guanti, non l'abilità, ma un modo di pensare con lui, di partire dalle sue aspirazioni profonde, di fare appello alla sua generosità piuttosto che alla sua obbedienza. Guéhenno ha assai bene mostrato che la cultura 'borghese tende a confondere le persone colte con dei «maestri», con dei capi. Noi non siamo capi:
— Voi sapete che coloro i quali hanno fama di comandare le nazioni le governano con impero e che i grandi esercitano il potere su di esse. Ma non così tra voi. Anzi, colui che vorrà divenire grande fra voi sarà il vostro servo: e colui che vorrà essere fra voi il primo, sarà schiavo di tutti — (Marco, X, 42-44).

Noi parliamo a fratelli, ed in nome di Cristo che dice:
— Io non vi chiamo più servi, ma amici.

Se siamo in questa corrente d'idee, tutto il nostro linguaggio e tutto il nostro atteggiamento ne risentiranno.

Guardate coloro che guidano le masse popolari, comunisti o socialisti; non si presentano mai come capi, ma come agitatori, e si curano molto di far volere e di far amare quel che vogliono.

Confessiamo che per il cristianesimo non è essenziale saper far scattare, marciare al passo, obbedire al fischietto, ecc... Ma ecco: la nostra educazione borghese, le nostre abitudini di cultura fanno sì che noialtri preti ci muoviamo più a nostro agio in mezzo alle file ben fatte, ai segni di cortesia: vi troviamo soddisfazioni umane. E a causa di
questa cultura dimentichiamo talora realtà più profonde.

 Quel piccolo giocista che non sa cantare belle canzoni come il suo compagno scout, nè vibrare come lui di fronte alle bellezze della natura, sa meglio di lui i problemi della vita: non dimentica la città per la campagna; non sa organizzare ricreazioni, ma conosce meglio le virtù sociali che lo reclamano e ciò che interessa i suoi compagni. Se alle volte sa meno mettere l'ordine nei suoi pomeriggi di vacanza, è perchè egli si trova meglio al diapason di quelli della sua classe.

Al Congresso della J.O.C. del 1937, mentre assistevamo alla sfilata dei vessilli sulla pista, uno dei capi nazionali dello scoutismo si curvò a dirmi:
— Credete che non sarebbe meglio se camminassero più in ordine?
Io capisco benissimo la reazione di quel giovane capo: a quell'epoca, conoscendo meno il popolo, abbondavo nel senso suo. Non ci sarebbe certo voluto molto più tempo, perchè la sfilata fosse impeccabile. Ma perchè chiedere ad un melo di produrre ciliege? Per ottenere quello stile, ci sarebbe voluto ben altro che una preparazione fisica: si sarebbe dovuto creare in qualche modo un'altra mistica. Questione di accento, di primato dei valori, di temperamento (popolare o borghese): nei mesi di preparazione del Congresso si era pensato a ben altro che alla cadenza e alla marcia al passo. Era qualche cosa d'inferiore? Era un'altra cosa, e senza dubbio superiore, perchè orientata verso valori più alti. Io sono ben certo che la reazione di quel capo scout e la mia di allora sarebbero state e sarebbero ancora quella d'un gran numero di miei confratelli. Ebbene, si veda in ciò un simbolo di quel che noi vogliamo far capire in questo capitolo: «Noi non sentiamo come il popolo».

Riassumendo: voi pensate che, per il fatto della nostra cultura borghese, noi ci lasciamo imborghesire?

Precisamente: e non solo per il fatto della cultura, ma anche per le persone che frequentiamo di preferenza. Noi ci lasciamo sempre accaparrare dagli elementi borghesi della nostra parrocchia, in modo da sembrare che prediligiamo la loro compagnia. È umano! Ricrea riposarsi nella conversazione di persone che hanno le nostre abitudini di pensiero, una buona educazione, maniere affabili, un modo di discorrere che ci induce a parlare liberamente secondo la nostra cultura: ma quale pericolo! Rapidamente, se non si sta in guardia, si limita la propria azione (è ancora un'azione apostolica?) ad un piccolo numero di famiglie, mentre le altre si allontanano da noi. Si prende (o si conserva, si coltiva in sè) la mentalità borghese, lo spirito, i gusti, i pregiudizi (ve ne sono anche lì)  della borghesia. Senza neppure accorgersene, si adottano le sue reazioni. Quando si predica, si pensa a questo ambiente, ci si rivolge ad esso: gli esempi che si citano valgono per esso solo. Ed il popolo capisce che gli siamo estranei, che non gli apparteniamo. Da quel momento è finita ogni influenza reale sopra di lui... E si arriva persino a non più vedere i difetti dell'ambiente che si frequenta. La vernice esterna illude, mentre la rusticità dell'ambiente operaio, la franchezza brutale del popolo ne accusano le deficienze. Volete qualche esempio? Non mancano.

Quand'ero giovane vicecurato, il mio primo parroco (al quale devo tanto per la comprensione del ministero parrocchiale) si compiaceva di raccontarci come, in una parrocchia dov'era stato in precedenza, aveva completamente riformato il gruppo delle Figlie di Maria, mettendovi a capo ragazze della società, per la maggior parte figlie d'ufficiali. Da allora, eran cessate quelle piccinerie, quei bronci che presso le nostre Figlie di Maria provinciali fioriscono con tanta fecondità. Il mio parroco si rallegrava con sé stesso di aver così creato un consiglio più distinto, più comprensivo. Era vero: ma a quell'epoca io ero adolescente ed abitavo nella parrocchia interessata, al momento di quella riforma. Avevo sentito l'altra campana, ero stato testimone delle reazioni dell'ambiente popolare. Il mio parroco scopriva solo il lato buono in quelle «brave ragazze» che aveva poste a capo della sua opera: esse erano educate, compite: davanti a lui sapevano darsi un contegno. Egli non ha mai saputo che, in sua assenza, o per la strada, esse erano superbe, sprezzanti verso le povere compagne popolane: non ha mai immaginato in qual modo il «Consiglio» trattasse dall'alto in basso le piccole che aveva l'incarico di amministrare, nè quale abisso si andasse scavando fra la truppa e i capi. Ma io, che avevo allora potuto giudicare le cose da testimone spassionato, ricordavo tante sorprese, tante sofferenze, anche, e soprattutto tanto scoraggiamento da parte delle altre!

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In una città di provincia un confratello ed io avevamo fatto fondare un sindacato cristiano. Era l'epoca della levata in massa delle Unioni Cattoliche maschili (Castelnau, 1924). A capo dell'Unione della nostra città, i nostri curati avevano messo un assennato Consiglio, composto naturalmente da «signori della società» o da grossi commercianti. Ebbene, una sera in cui assistevo ad una riunione sindacale, ecco che i nostri bravi operai m'interpellarono:
— Reverendo, è proprio una sfortuna: non si è trovato il modo di mettere almeno un operaio e un impiegato nel Consiglio delle Unioni Cattoliche. Capirete che non è per noi... ma in fabbrica i compagni lo sanno e ci canzonano: dicono che serviamo solo per stare di guardia alla porta e per ricevere i rimproveri, se è il caso, mentre quei signori se ne stanno seduti dentro, in poltrona... Che cosa volete che rispondiamo?
Ero piuttosto imbarazzato: quante volte avevo segnalato la cosa al parroco! Feci questa proposta:
— Sentite: fra qualche settimana avrà luogo il vostro Congresso non è vero? Ebbene, come esponete i vostri desideri sul terreno sociale, esponetene uno nel senso che avete accennato ora.
Ed infatti, al mattino del Congresso, sentii esprimere in buona, debita forma, il desiderio che qualche operaio facesse parte dell'U.P.; con estrema delicatezza, il presidente dell'U.P. — invitato al banchetto del Congresso — nominò presidente del sindacato un membro del Consiglio dell'U. P.... Ma dopo una settimana ebbe luogo un Congresso simile nella città episcopale. Quando il segretario volle parlare per proporre la stessa cosa, il cappellano lo fece tacere, in nome dell'autorità diocesana. Figuriamoci il naso dei nostri congressisti! E le proteste?
— Non hanno capito niente delle nostre richieste... Non è per noi, è roba per gli altri... Dopo un fatto simile, non ci sarà più da stupirci che nelle U.P. non ci sia nessun operaio!
Adesso siamo evidentemente ben lontani dalle condizioni di spirito di quegli anni, e i nostri movimenti specializzati ci hanno fatto percorrere molta strada; ma forse non è inutile riferire questo caso, per far vedere come noi siamo spesso tentati di giudicare e di agire dietro punti di vista borghesi.

Noi ci meravigliamo che il popolo confonda la Chiesa con la borghesia; ma mettiamoci al posto di coloro che hanno frequentato i nostri catechismi, le nostre opere. Essi ricordano che al catechismo, accanto al prete, c'erano delle signore, spesso delle gran signore, eleganti come non lo erano la loro mamma e le loro sorelle: signore che parlavano in un modo diverso da quello del loro quartiere. Esse hanno fatto loro recitare il catechismo, ma li hanno anche rimproverati perchè si comportavano male e parlavano volgarmente. Come volete che non associno nella loro memoria il ricordo di quelle signore borghesi con quello del catechismo e del prete? Come non confonderebbero le esortazioni alle belle maniere (non le loro...) e i più gravi principii della morale cristiana?

Più tardi, al patronato, c'erano i confratelli d'opere, tutti quei signori che al giovedì venivano dai collegi e dai licei, e quelle signore e signorine che insegnavano loro girotondi e canzoncine d'un altro mondo, mai niente che somigliasse alla loro vita, a quel che si cantava intorno ad essi. Voluto da voi, o no, tutto questo era per loro un mondo diverso, un mondo che non è il loro: il mondo borghese.

Qualche mese prima della liberazione ci trovammo per caso in un'interessantissima riunione di dirigenti dei centri di gioventù femminile organizzati sin dall'inizio dell'occupazione dal Segretariato Giovanile. Tutte quelle dirigenti erano cattoliche. La loro inquietudine e il loro smarrimento erano enormi; dopo quattro anni di sforzi erano tutte costrette a fare la stessa constatazione: le ragazze che uscivano dai Centri non erano pronte per ritornare alla loro vita, la maggioranza cedeva, e le poche che perseveravano pativano terribilmente del loro ambiente, al punto di disamorarsene... Su tutte le labbra era la stessa antifona, con gli stessi racconti desolanti, con la stessa dichiarazione d'impotenza. Non abbiamo osato dire a quelle signorine tutto il nostro pensiero: sarebbe stato troppo crudele, e del resto inutile. Non potevamo assicurare loro che sapevamo in anticipo ciò che accadeva, e che quattro anni prima — quando i Centri avevano aperto le loro porte — avevamo già la certezza che sarebbero finiti in un ginepraio come quello. Che cosa si voleva infatti fare? Preparare le ragazze dell'ambiente popolare alla loro vita. Si doveva ben pensare che un giorno sarebbe stato necessario restituirle a quell'ambiente, alle condizioni di vita delle loro sorelle maggiori, della loro famiglia, dei loro vicini, e che se anche si facevano uscire di lì per poco tempo, bisognava armarle, affinchè fossero in grado di ritornarci e di «tenersi». La prima condizione per arrivare a ciò sarebbe stata quella che i quadri di quelle case fossero perfettamente al corrente dell'ambiente popolare ed avessero un'abitudine quasi innata delle reazioni operaie. Dopo avere accuratamente studiato quell'ambiente, bisognava studiare gli elementi di una cultura operaia e cercare un metodo di formazione ben adatta. Invece si è preso in blocco, o quasi, un metodo di formazione bell'e fatta. Assistenti sociali. signorine dell'aristocrazia, studentesse si sono messe all'opera con tutte le loro reazioni borghesi ed intellettuali, imponendosi il dovere di formare quelle giovani apprendiste o future operaie, come avrebbero formato le loro sorelline o delle liceiste. Questa abnegazione è ammirevole, ma era votata all'insuccesso.

Meglio di ciò, ricordiamo che all'inizio di questa fondazione, in una delle prime sessioni di formazione di quadri, alcune dirigenti giociste erano presenti e reagivano spontaneamente contro tutto ciò che, con la loro personalità e colla loro vita, capivano inadatto. Esse ci dissero poi:
— Si direbbe che queste assistenti sociali vedano il popolo come al cinematografo.
Ma ecco che, invece di trarre profitto dalle osservazioni di quelle giovani, le dirigenti dei corsi le fecero tacere, dichiarando loro:
— Voi non conoscete la classe operaia!...

È chiaro che, se ci si è forgiata a priori una conoscenza del popolo, se si è tracciato un disegno ben esatto della sua anima, un disegno visto dal gabinetto da lavoro e secondo gli schemi dei trattati di sociologia applicata, è relativamente facile costruire un metodo di pedagogia popolare.

Disgraziatamente, esso riesce solo in teoria: in pratica, fiasco completo!...

Come controprova, potremmo invocare i risultati ben diversi della stessa organizzazione affidata alla I.O.C.; i centri diretti da «Nuove messi» sono riusciti, hanno dato un effettivo rendimento: perchè erano diretti da operaie, che sapevano a che cosa volevano arrivare.

Si deve dunque cercare la soluzione nell'utilizzazione di elementi popolari abbastanza formati per istruire o trascinare i figli della massa?

Sì; ma per questo bisogna anzitutto che ci rendiamo bene conto che il problema esiste, e che, partendo da tale constatazione, cerchiamo di risolverlo. Finchè non ne saremo convinti, faremo delle topiche. La convinzione del popolo che «borghesia» e «religione» siano tutt'uno, è il più forte ostacolo per l'evangelizzazione delle masse. Ora, i nostri atteggiamenti evidentemente incoscienti e derivati dalla nostra formazione, dalle nostre abitudini molto spesso non sono fatti per distruggere questa persuasione.

Ascoltate quel che narra una militante:

Ho visto un giorno giungere insieme in una sagrestia un operaio in tenuta da lavoro ed un signore che, a vederlo, doveva certo, essere un parrocchiano di marca. Entrambi conoscevano lo stesso prete, ed erano venuti a cercarlo. Il sacerdote, senza nemmeno salutare l'operaio (eppure lo conosceva bene!) si mostrò molto complimentoso col signore e lo fece subito entrare nel suo ufficio. In quel momento ho visto l'operaio cambiar colore: tuttavia egli stette più di mezz'ora ad aspettare, e quando fu stufo se ne andò. Io trovo che quel prete ha agito in modo da umiliare l'operaio il quale aveva pur diritto ad un saluto: se si fossero trovati soli, non glielo avrebbe forse fatto? ed allora, perchè questa differenza?... Conosco anche un parroco che accudisce in modo speciale a un gruppetto di I.I.C.: le chiama «le sue borghesucce». Dice spessissimo alle altre che esse non possono essere unite con le giociste, che esse hanno bisogno di molti riguardi. Ebbene, le altre ragazze (sono semplici operaie, ma hanno una buona educazione) ne soffrono molto. Un giorno, alcune delle prime si sono ugualmente avvicinate a certe giociste, e hanno discusso con loro sul modo con cui quel parroco giudica le operaie:
— Ragazze senza istruzione, pochissimo intelligenti; sciocchine, insomma.
Risultato: barriera insuperabile fra il parroco e le operaie sciocchine, che non sono però sciocche come crede lui... Si deve essere stupidi per forza, solo perchè si è operai?