Un ostacolo da sopprimere:
LA NOSTRA CULTURA
Sulle strade che conducono all'anima del popolo, il denaro pare a voi, dunque, come uno dei principali ostacoli da superare. Ne vedete altri?
Sì, uno pure notevole: la nostra cultura.
Ma come? la nostra cultura ci impedirebbe d'arrivare al popolo? sarebbero forse più efficaci gli apostoli ignoranti? Credete che sarebbe preferibile non tentare l'istruzione popolare, contemporaneamente all'evangelizzazione?
Ecco domande che ci gettano nel vivo del dibattito. Il modo stesso con cui le fate, prova che sarà difficile trattare questo problema: gli occhi con cui lo esaminiamo sono stati appunto educati da quella cultura, di cui saremo obbligati a chiedere che si diffidi. Stenteremo a capirci: ma con uno sforzo da ambo le parti ci arriveremo.
Certamente; ma, a priori, io sono tentato di non vedere un ostacolo nella nostra cultura, perchè numerosi apostoli della classe operaia, che sono riusciti nel loro apostolato (p. es. don Godin), ne erano forniti.
La differenza di cultura non ha impedito a don Godin di trovare la strada dell'anima popolare, perchè egli ha saputo sorpassarla, diffidarne, sopprimere quell'ostacolo. Ma ben pochi ci riescono, ed anche quelli che sono considerati i migliori apostoli della classe operaia non hanno tutti vinto la difficoltà. Spesso, in modo latente, essa sussiste ed impedisce un miglior rendimento.
Come esprimete questa difficoltà?
Sapete bene che la formula paternalistica «andare al popolo» ha fatto fiasco. Il popolo non è mai stato nè intaccato nè sedotto dai borghesi di buona volontà che hanno cercato di mettersi alla sua portata «per fargli del bene». Si è potuto creare qualche amicizia, ma senza risultati apostolici apprezzabili, specialmente per lo scuotimento della massa. Perchè? Perchè la maniera abituale di pensare, il modo di comportarsi, di vivere, e l'educazione, erano diversi: non parlavano la stessa lingua, perchè non avevano la stessa cultura.
Francesco Mauriac ha scritto il romanzo «Il fanciullo carico di catene», che senza dubbio conoscete. Esso è una prova crudele di questo smacco. Il movimento giocista è nato appunto dalla convinzione che solo l'operaio cristiano potrà trascinare la massa operaia: apostolato sul simile per opera del simile... Ora, la cultura di noi preti è borghese. Da qualunque ambiente usciamo, i nostri studi di seminario — studi classici, filosofici e teologici ci pongono rapidamente in un altro ambiente che non è precisamente quello borghese, ma che gli è affine. Don Godin, che era stato operaio, raccontava che al ritorno dal seminario, riprendendo contatto con gli antichi compagni, udì da questi una riflessione che lo rattristò, ma di cui si rese conto che era giusta:
— Tu non sei più come noi... non sei più uno di noi.
Ciò non gli impedì d'essere un meraviglioso apostolo della classe operaia, e il suo esempio come tanti altri dimostra che il problema non è insolubile; ma fu a costo di uno sforzo che anche noi dobbiamo compiere, se non vogliamo fare fiasco nell'ambiente popolare. E fu certamente anche perchè don Godin era dotato d'una facoltà di adattamento assai rara... In mancanza di questo sforzo, accade ciò che vediamo di solito nelle nostre parrocchie: la limitazione del nostro apostolato ad un piccolo numero di persone capaci di seguirci e di muoversi nella sfera dove noi stessi ci muoviamo.
Al principio di questi colloqui abbiamo constatato che troppo spesso la parrocchia si riduce ad un «ambiente parrocchiale». Una delle ragioni di quella limitazione è questa: noi ci lasciamo circondare, accerchiare da coloro che, senza essere borghesi propriamente detti, hanno però una certa educazione, una certa vernice, o almeno una certa flessibilità, grazie a cui non si trovano spaesati in nostra compagnia; e noi ci sentiamo con essi in armonia. Con costoro, il lavoro è più facile: essi ci capiscono (o per lo meno fanno finta di capirci, il che è lo stesso): parliamo la stessa lingua. Anche se il loro cristianesimo è pochissimo vivente, ci sentiamo più vicini ad essi; e frequentandoli, il carattere borghese della nostra cultura si accentua ancor più, ci assimiliamo ad essi. Niente da stupirsi, dunque, se l'opinione popolare ci assimila ugualmente a costoro e ci considera con lo stesso occhio: l'occhio con cui essa guarda chi si trova «dall'altra parte della barricata». Cosicché, più andiamo avanti, meno conosciamo nel suo profondo questo popolo che ci è affidato, e meno siamo adatti a parlargli, a sedurlo. Noi supponiamo costantemente come acquisite nozioni che esso non possiede, principii che per noi vanno da sè, mentre sono agli antipodi del suo pensiero corrente.
L'ambiente popolare è dunque così estraneo, così impermeabile alla nostra cultura?
Ecco che dite bene: alla «nostra» cultura. Sì, potete essere sicuri che l'ambiente popolare è completamente sprovvisto di ciò che, in stile borghese, noi chiamiamo la «nostra cultura». Non diciamo che esso non vi sia adatto (sarebbe una questione da discutere, che comporterebbe molte distinzioni e sottigliezze, e che ci condurrebbe fuori dal nostro argomento): diciamo che non l'ha, ed anche che ne diffida. È un fatto di cui bisogna tenere conto.
Sottolineeremo solo qualche differenza fondamentale. L'uomo colto ragiona sulle sue azioni: al minimo, si fa una piccola filosofia dell'esistenza con l'aiuto di qualche principio ammesso dalla sua intelligenza. Il mondo popolare agisce per trasporto. e il sentimento rappresenta la parte principale. Il mondo popolare delle nostre grandi città attuali si comporta sulla base di certi aforismi materialistici che rappresentano per lui la «saggezza» (p. es.: «non bisogna lasciarsi scappare l'occasione buona» … «ci sono pochi momenti buoni nella vita: sarebbe da stupidi lasciarseli scappare, quando si presentano» ... ecc...); materialistici ed anche rivoluzionari, che si riassumono abbastanza bene così: «bisogna difendersi». Il tipo ideale è colui «che si difende bene». Vi sono genitori che rimproverano il figlio che è stato troppo buono in classe o che non ha reso pugni per pugni. Il supremo disonore è quello d'essere stato uno «zuccone», ecc...
L'uomo colto si picca di spirito critico, si compiace di discutere ciò che sente o ciò che legge: proibisce a sé stesso di «pensare come tutti». Invece il mondo popolare pensa collettivamente: l'opinione del gran numero è la sua, ed esso agisce di conseguenza.
Si dice «rispetto umano»: talora è vero, ma sarebbe più giusto dire «assenza di idee personali, assenza di principii». Donde deriva una conformità ai modi di pensare del suo ambiente, sia che si tratti di quello di lavoro o di quello di divertimento o di quello politico. Esso adotta l'opinione media, anonima, che viene da chissà dove e che si esprime con frasi fatte. Pensa con chi gli sta intorno: l'adulto specialmente come i compagni di lavoro, il giovane come i compagni di divertimento. La sua personalità non è accusata e si sdoppia facilmente; ma esso non se ne rende conto e crede volentieri d'avere un pensiero suo proprio. Lo prova questa riflessione di un operaio, a proposito del quotidiano che leggeva abitualmente:
— Straordinario, questo giornale! La pensa sempre come me.
L'uomo colto fonda i suoi giudizi su certi assoluti che gli servono da criteri. Nel mondo popolare, tutto è questione d'opinione, anche la morale. «A ciascuno le proprie idee...» è la formula più corrente. D'altra parte, le idee non hanno valore: si fa come si può, o come si vuole.
— Siamo liberi, non è vero?
Questo istinto di libertà viene in parte dal temperamento rivoluzionario, ma soprattutto dalla morale che si è ricavata dall'insegnamento della scuola laica. Essa non aveva nessun fondamento universale, i maestri si sono contraddetti, hanno. contraddetto la famiglia o il catechismo. Ne è rimasta quell'idea confusa che tutto è vero o falso secondo il punto di vista da cui ci si colloca, e che infine «sono tutte storie». Alla radio, i professori di morale sono stati Saint-Granier e Clément Vautel: il «menefreghismo» integrale. Ciò che dirige dunque non è una verità oggettiva, di cui si ha cura, ma l'interesse immediato, quello del corpo in particolare. Se cambia l'interesse, tutto cambia, anche l'apprezzamento del bene e del male, del giusto e dell'ingiusto. Solo il relativismo è un assoluto. E questo si verifica anche nei cristiani praticanti. Si vede già di qui l'importanza di creare correnti d'opinioni, di lanciare «luoghi comuni» benèfici, invece di attardarsi ad esporre tesi che non toccano nessuno.
Credete realmente che l'operaio sia incapace di pensare personalmente?
Ricordate che da principio abbiamo detto che alcuni ne sono capaci, una volta che si ritrovano in famiglia. Non sono necessariamente i più evoluti, ma quelli che sono ancora prossimi al buon senso contadino, quelli che non hanno completamente subito l'influsso della grande città, o quelli meglio dotati di spirito critico. Questi, in casa loro, riflettono, rievocano i ricordi, pensano all'educazione ricevuta, all'atavismo. Ridiventano sé stessi, col loro buon senso personale. Per fare la conquista individuale, con l'aiuto della quale si potrà poi fare per mezzo di essi la penetrazione nell'opinione collettiva, possiamo dunque raggiungerli più utilmente nella famiglia: non esclusivamente, è vero, ma in condizioni più favorevoli che da qualsiasi altra parte.
Con questi, almeno, la nostra cultura non sarà un ostacolo!
Ma sì, anche con questi! Sia che li incontriamo in casa nostra o in casa loro o in chiesa se ci vengono dobbiamo ancora diffidare della nostra cultura: oppure, se preferite, della nostra formazione. delle nostre abitudini. Altrimenti, presentiamo loro una religione estranea, che non va giù, proprio come un cibo che l'organismo non può sopportare: lo s'assorbe, ma non lo si può digerire.
Da dove proviene la difficoltà?
La nostra prima tentazione deriva dalla nostra formazione teologica. Bisognava ben farla, questa teologia! Anzitutto per penetrare noi stessi il più addentro possibile nei misteri divini, affinchè la luce della ragione che ci è stata data da Dio non sia scioccamente disprezzata da noi e ci serva a raggiungerlo secondo tutto l'animo nostro. E anche per essere in grado di esporre le divine verità, con saggezza, alle menti avide di spiegazioni. Avremmo anche dovuto farla così bene da essere capaci di servircene senza accorgercene... La dottrina dovrebbe essere in noi, incorporarsi nel nostro pensiero, in maniera che noi la comunicassimo come nostro proprio pensiero, con parole comuni, quasi senza farlo apposta. Invece la comunichiamo con forma scolastica, più vicina al manuale che alla vita; ed essa non interessa la nostra gente, per la quale solo la vita ha interesse.
Ora, il cristianesimo non è una «saggezza» (cfr. S. Paolo): è spirito e vita. Non rendiamolo troppo intellettuale, non facciamo tesi, non allontaniamoci contemporaneamente dal nostro gregge e dal Vangelo. Il Vangelo è più prossimo alla nostra gente che alla teologia. Certo, bisogna dare la dottrina: non crediamo che basti accontentarsi di predicare la morale! ma bisogna dare una dottrina vivente, una dottrina che serva alla vita, ed alla vita di coloro che vogliamo raggiungere. Quando abbiamo fatto una bella chiacchierata ben ordinata, ben costrutta, e la nostra gente l'ha ascoltata, siamo soddisfatti e troviamo che ciò vale più di quel circolo di studio dove ciascuno ha detto la sua parola, non sempre giustissima. Ebbene, la verità è entrata ben più addentro nella mente di chi ha detto quella parola — prova di una scoperta personale in rapporto con la vita — che non in quella di chi ha ascoltato per un'ora.
E del resto, come si può dare un insegnamento ben squadrato in un'ora per settimana? Invece il metodo d'inchiesta su problemi della vita, fondato su esempi vissuti: la discussione fatta di tutte le reazioni personali: quella specie di direzione collettiva in cui il prete ha la magnifica parte di sottomettere gli interessi particolari al bene generale e di eliminare ogni egoismo: ecco ciò che è assai più formatore per i nostri operai! Questo li afferra per intero: e non vi sfuggono. Una esposizione — anche la più convincente — resta per essi sul piano intellettuale: la maggioranza non vi prende interesse, e quelli che si interessano non sono profondamente trasformati.
Una giocista, presidente della sua sezione, che era stata a lungo fedele al patronato della sua parrocchia, venne un giorno da noi tutta agitata, protestando con forza:
— Ah! è una cosa detestabile: con la vostra J.O.C non ci si potrà più sposare.
— Ma perchè?
— Eh, sì! Prima, ci si sarebbe maritate con un uomo qualunque: adesso invece si vuole solo più un buon cristiano, e per strada non se ne incontrano. Lo dicevamo ieri fra compagne, ed eravamo tutte seccate.
— Eppure, non è solo da oggi che siete cristiane: al patronato non vi parlavano forse del matrimonio?
— Oh, sì! ma al patronato parla il prete, mentre alla J.O.C. parliamo noi. E dopo aver fatto l'inchiesta che si fa da due anni «sulla preparazione della giovane lavoratrice al matrimonio», non si può più volere che un militante... Capirete che non è divertente!...
Ci rendiamo conto di tutta la convinzione espressa in quest'ultima frase? «Non è divertente»! Esserne convinti al punto da preoccuparsene: ma non si potrà passare oltre. Evidentemente, le nostre giociste nei due anni dell'inchiesta sulla preparazione al matrimonio non hanno studiato in modo didattico la loro religione e il sacramento; ma tutta la loro vita ne è stata trasformata.
In una delle parrocchie dove sono passato come vicecurato, ho conosciuto due patronati di ragazze: identico reclutamento, identico ambiente, formazione totalmente diversa. Nel primo, le ragazze erano molto istruite in fatto di religione: quasi tutte facevano gli esami d'istruzione religiosa dell'Arcivescovado. Sin dal primo circolo di studio che volli fare, rimasi stupito di quel che esse sapevano e capii di dover totalmente cambiare il mio piano di riunioni dell'annata. Ammirai quella scienza e me ne rallegrai per l'avvenire... Nel secondo patronato, c'era assai meno istruzione religiosa propriamente detta. Pochissime ragazze erano promosse agli esami e quasi tutte si fermavano dopo il secondo anno. Ma la formazione morale era più continua, più vicina alla vita. Dapprima rimasi un po' deluso: quelle ragazze sembravano più civettuole... La pietà sembrava la stessa nei due patronati. Ma a dieci anni di distanza mi è possibile giudicare gli alberi dai frutti. Se prendo l'insieme di quelle ragazze che si sono sposate, devo confessare che quelle del primo patronato non hanno perseverato, sposandosi con leggerezza. Tutte (le altre hanno invece formato vere famiglie cristiane. Non mi si faccia dire ciò che non dico: naturalmente non pretendo che l'istruzione religiosa sia stata un ostacolo alla perseveranza; ma credo di poter dire che non è stata un mezzo sufficiente. A sentire certi uomini di dottrina, si potrebbe credere che la maggiore mancanza è quella di un insegnamento a base di «nozioni». Essi giudicano con la loro cultura teologica. Quel che manca, è di saper entrare nella vita, per trasformare la vita. Il nostro abituale insegnamento dogmatico non penetra, non trasforma, perchè chi ascolta non è intellettuale. Quell'esempio dei due patronati mi ha profondamente impressionato: e devo soggiungere che tutti i confronti che ho potuto stabilire fra le C.E. d'insegnamento e le C.E. giociste hanno corroborato quell'impressione.
Vi sono però dei casi in cui dobbiamo procedere col sistema dell'insegnamento e fare vere e proprie «esposizioni».
Certo: lasciamo però la scolastica, parliamo come Cristo. Quel predicatore inglese che sul pulpito apre il giornale legge un fatto vario e parte di lì per innalzare l'uditorio ad una concezione cristiana della vita, scandalizzerebbe senza dubbio il nostro ambiente parrocchiale sino dai primi approcci; eppure, si servirebbe d'un punto di partenza migliore di quello scelto da quel cappellano militare che noi abbiamo udito cominciare così una sua predica:
— Fratelli, Iddio è dovunque, con la Sua essenza, con la Sua presenza e con la Sua potenza. Anzitutto con la Sua essenza, perchè... ecc...
Nostro Signore non era forse più vicino al primo che al secondo?
— Avrete sentito parlare di quelle diciotto persone sulle quali è caduta a Siloe una torre, uccidendole... (Luca, XIII, 4).
— Quando cade la sera, voi dite che domani farà bel tempo, perchè il cielo è rosso... — (Matteo. XIV, 2).
E via di seguito. Gesù parlava il loro linguaggio, perchè era uno di essi. È stato certamente l'uomo colto per eccellenza, perchè più d'ogni altro si è collocato nel mondo, ha giudicato, ha dominato gli esseri e le cose. Ora, quel che vogliamo imparare, se intendiamo formare, è giudicare, dominare la vita, chi ci sta intorno. Bisogna dunque prendere questa vita come si presenta ai nostri ascoltatori. Cristo ha avuto bisogno di fare appello solo alle nozioni della vita corrente, per formare i suoi apostoli e per predicare il Vangelo.
Non si tratta di mettere in mostra la propria scienza, ma d'agganciare e di trascinare. La dogmatica non aggancia: anche le «grandi verità» commuovono poco: se partiamo dall'assoluto, la nostra gente ci lascia partire soli. Essa è invece sensibile a tutto ciò che è vitale. Le persone colte si interesseranno a sentir spiegare che la messa è un sacrificio, in quale senso, ecc...: vi troveranno anche un alimento per la loro pietà. I nostri fedeli saranno assai più conquistati se diremo loro semplicemente che essa continua il sacrificio della Croce; che Gesù sia vivente nell'ostia l'interessa più che sapere in qual modo vi si trova. Così per la grazia, per la comunione dei santi, ecc... Tutti i dogmi possono così essere insegnati, ma sotto un aspetto vitale, non sotto un aspetto nozionale, che non entra nelle loro categorie e che non lascia in essi nessun ricordo.
D'altronde, l'argomentazione apologetica ha poca presa sulla nostra gente, perchè essa non crede alla dialettica. Di discussioni ne ha sentite troppe! Incapace di cogliere il lato forte e il lato debole di un argomento, capisce di non potervi rispondere, perchè si è più «furbi» di essa (differenza di cultura); ma questo non la scuote affatto. Se sapessimo sorpassare la nostra cultura e tenere per noi la teologia, arriveremmo alla nostra gente assai più facilmente con l'ardore della nostra convinzione. Forse che ascoltandoci si formerà in tal modo? Come dicevamo dianzi, è gente più di azione che di riflessione: bisogna tenerne conto e formarla con l'azione. Una gran parte della nostra brava gente non è capace d'una pratica sostenuta della religione, e a più forte ragione d'una religione troppo interiore. Bisogna farla agire, farla pregare con tutto il suo essere, con le membra, col cuore e specialmente con lo spirito. Un'esperienza come il Grande Ritorno di Nostra Signora di Boulogne ne è un esempio sorprendente.
Offrire anche alle più indifferenti popolazioni dei nostri paesi una occasione eccezionale di manifestazioni esteriori è una idea molto popolare, molto adatta alla psicologia delle masse. Far allestire gli archi di trionfo (di cui le donne intrecciano le ghirlande e gli uomini piantano i pali e i rami), mettersi in corteo a piedi nudi, scortare la Madonna, vegliare davanti a Lei: ecco una forma di pietà che piace al popolo ben più che partecipare a formule di preghiere incomprensibili per lui. Gettare insieme acclamazioni: ecco un modo popolare di svegliare e di far pregare quest'anima comune della folla. Così si spiega, per esempio, lo stupefacente successo delle «ostensioni» nella diocesi di Limoges, dove tutto il popolo — comunisti e cattolici — va in visibilio.
La nostra gente non è capace d'una vita religiosa sostenuta, perchè la religione che le viene messa davanti si rivolge troppo all'intelletto e non abbastanza all'azione. Un operaio, al quale avevamo chiesto un rendiconto per il bollettino del patronato, ci diceva un giorno:
— Ah! io preferisco tenere in mano un martello, piuttosto che una penna.
Noi ricordiamo d'aver fatto studiare per tutto un inverno il Pater Noster ad uomini dell'ambiente popolare: non però facendoli sedere ad un tavolo per prendere appunti, ma cercando e componendo con essi un giuoco scenico, in cui tentavano d'esprimere le loro scoperte d'ogni genere... C'è tanta brava gente, alla quale possiamo chiedere un servigio materiale, che talora la compromette agli occhi dei compagni, e che è felice di rendercelo: non accetterebbe invece di seguire esercizi regolari del nostro culto parrocchiale. Bisogna prenderla com'è: dal momento che può e che accetta, facciamola pregare agendo.
Ma così non si pericola di cadere in una specie di religione materiale?
È verissimo che bisogna stare in guardia da un certo «materialismo» della religione: materialismo di cui vediamo esempi sorprendenti nelle pratiche quasi. superstiziose che godono il favore di tante persone. Portare addosso medaglie, bruciare un cero, fare una offerta a santa Teresa o a Sant'Antonio da Padova, insomma fare o dare qualche cosa, è alla loro portata e nel loro piano di vita. Quanti soldati si caricavano di medagliette, senza però pensare a pregare!... Fu questa la causa che l'anno scorso, da noi, diede tanto successo al passaggio della Madonna di casa in casa: ci furono intere strade dove nessuna famiglia la rifiutò. Qualcuna, purtroppo, si giustificava dicendo di non voler interrompere la catena... C'è dunque un pericolo reale, che noi non vogliamo misconoscere; ma questo non significa che dobbiamo rinunciare ad una sana utilizzazione del sensibile, del materiale. La Chiesa lo fa coi suoi sacramenti e coi suoi sacramentali: ha ragione, perchè noi siamo spirito e corpo, e andiamo a Dio come siamo, come Egli ci ha creati, attraverso il sensibile, utilizzando i nostri sensi. Gli errori che constatiamo, le deviazioni che possiamo temere ci obbligano semplicemente a non provocare atti esteriori senza spiegarli, senza orientarli verso il loro fine spirituale. Essi non devono essere per noi un mezzo di raggiungere e di toccare le anime. Possono però esserlo, ed abbondantemente, e noi avremmo un gran torto se, per evitare il pericolo or ora segnalato, ci rincantucciassimo in uno spiritualismo o in un intellettualismo disincarnato.
Dobbiamo anche guardarci dalla nostra cultura letteraria?
A più forte ragione! La felice scelta delle parole, le antitesi che colpiscono, l'armoniosa cadenza delle frasi, la finezza di un'allusione, tutto ciò che attrae le persone istruite e dà a chi parla la piacevole impressione d'essere gustato dai raffinati, sono cose che sfuggono all'ambiente popolare. Quando ci dilunghiamo in esse, perdiamo tempo e manchiamo allo scopo. Bisogna essere diretti e presentare Cristo in maniera più spoglia: i nostri ornamenti lo sfigurano. Anche qui dobbiamo accostarci al Vangelo e dimenticare la nostra formazione greco-latina. È più difficile che non si creda.
E così pure, questo sforzo che noi tentiamo talora per far accedere il popolo alla bellezza religiosa per mezzo della bellezza letteraria od artistica, è proprio apostolico?
Condannereste forse i saggi d'arte religiosa popolare di queste ultime decadi?
No davvero, nel principio. C'è un teatro cristiano, ci sono poemi cristiani, una musica religiosa, un'arte religiosa dell'immagine, della vetrata, ecc... È bello che gli ambienti popolari vi siano iniziati da fedeli che ne riconoscano la vocazione, e che altri si sforzino di pensare e di creare un'arte più propriamente popolare. Per questa strada indiretta, certe anime possono essere elevate a Dio: in tutti i casi, bisogna che le nostre chiese creino un'atmosfera di vera bellezza. Bisognerebbe inoltre vedere se coloro che, nei cenacoli, pretendono di comporre opere popolari trovano proprio la vera strada. Quante volte abbiamo visto la nostra gente sbadigliare di noia durante certe commedie che autori cosiddetti specializzati avevano composto per il pubblico popolare! Quante volte abbiamo visto i nostri giovani, o certi padri di famiglia pieni di buon senso, beffarsi di ciò che veniva loro presentato! Gli artisti, i borghesi, gli studenti, nella sala e all'uscita, erano pieni di ammirazione:
— Ecco la restaurazione del teatro popolare!
E la nostra gente si dava nel gomito, dicendo:
— Ma per chi ci prendono?
Abbiamo veduto una sala popolare vuotarsi letteralmente, perchè il prete, per sua soddisfazione personale, faceva ostinatamente passare solo commedie di un certo cenacolo, a base di misteri detti «popolari».
Siamo sicuri che queste osservazioni daranno luogo a tutte le classiche discussioni sull'«arte per il popolo». Quanto a noi, vogliamo semplicemente far notare che si arrischia di prendere un granchio enorme, se si pensa di fare dell'apostolato con mezzi estetici che il popolo non capisce.
Bisogna poi intendersi bene sull'arte moderna nelle nostre chiese. Il popolo — i giovani soprattutto — esigono roba moderna. È però necessario dargli qualche cosa d'intelligibile, e specialmente di sensibile. C'è un «moderno» che non si digerirà mai, perchè è incomprensibile, convenzionale, troppo geometrico, troppo schematico: prova d'una fantasia ingenua, che si profonde in cose cosiddette «per fanciulli». Si crede di fare cose «popolari», perchè si fanno cose «ingenue». Ma «ingenuo» non significa «semplice», che in letteratura vuol dire «chiaro», ben spiegato, e che in arte rappresenta ciò che parla con immediatezza e si lascia capire senza bisogno di rompersi la testa.
Mi pare che voi parlavate anche della nostra educazione come d'un ostacolo alla penetrazione nell'ambiente popolare. Forse che la buona educazione dovrebbe nuocere al nostro apostolato?
La buona educazione, no; ma la nostra formazione borghese in tema d'educazione, sì. Più ancora della nostra cultura, sono borghesi le nostre maniere: o più esattamente, sono «ecclesiastiche», con tutto ciò che questo epiteto comporta d'unzione, di dignità un po' solenne, di comportamento untuoso ed insinuante, talvolta pontificante: strano miscuglio d'autorità, di «prudenza», di benevolenza condiscendente, di timidezza, di «bei modi», che forma il tipo caratteristico, l'ecclesiastico (tipo così caratteristico, che certe astute ditte specializzano qualche loro rappresentante, per trattare con la clientela ecclesiastica), al punto che c'è chi dice, d'un laico e d'un soldato:
— Ha la faccia da prete.
È inevitabile? Certo che no, perchè alcuni di noi vi sfuggono e si può dire di essi (e non necessariamente in un senso cattivo):
— Non è un curato come gli altri... E un tipo chic!
Ad ogni modo, non bisogna dissimulare che questa nostra maniera di fare ci pone in una casta separata, dove ci riesce assai difficile renderci graditi alla gente del popolo. Da noi, essa non si trova a casa sua: la nostra compagnia la disorienta ed essa non desidera restarvi a lungo, perchè si sente goffa, impacciata. Che cosa possiamo farci? Non si tratta naturalmente di prendere un comportamento «popolare» nel peggior senso della parola. Bisognerebbe però abbandonare la nostra «dignità» borghese, per arrivare ad un'altra dignità, quella — semplice, senza cerimoniosità, accogliente — degli operai che si rispettano. Anche il popolo ha la sua gentilezza, se pur non è quella borghese. Non importa che un operaio ci parli col cappello in testa e la sigaretta in bocca: bisognerebbe che non solo non glielo facessimo sentire, ma non lo sentissimo nemmeno noi. Non confondiamo la «distinzione» borghese con la delicatezza, fiore della carità. Potrà, per esempio, non essere distinto chiamare qualcuno da una parte all'altra della strada; eppure ciò potrà essere una gentilezza molto apprezzata. Al contrario, non è necessario dare manata sulle spalle d'un operaio, o chiamarlo «amico mio» per conquistare la sua simpatia. A Péguy non piaceva essere trattato «alla popolana», ed aveva ragione. Ma questo atteggiamento è una cosa, e la semplicità è un'altra. Bisognerebbe che rinunciassimo a «pontificare», che non ci preoccupassimo più dei riguardi che ci sono dovuti...
Saper stringere con energia una mano, fare un pezzo di strada con chi si è raggiunto lungo il cammino, fermarsi per scambiare due parole, portare un pacco, spingere un carretto: ecco la cortesia popolare. L'apostolo della classe operaia, se vuole «farsi tutto a tutti per conquistare tutti», deve adottarla come sua. E non eccezionalmente, come uno scout fa la sua B. A., ma in modo che la sua pratica l'identifichi all'ambiente e che l'ambiente lo adotti per suo. Questo non è discendere, fallire. Certi grandi apostoli della nostra epoca (don Bosco, don Fouque a Marsiglia, Padre Anizan nel quartiere di Charonne, Padre Chevrier a Lione) sono stati gli «uomini popolari» del loro quartiere, della loro città. Non erano «ecclesiastici», ma uomini di Dio ed insieme uomini del popolo. Del resto, san Paolo definisce così il prete:
— Preso in mezzo agli uomini e costituito a beneficio degli uomini, in ciò che riguarda il servizio del Signore (Ebr., V, 1-2).
Ecco le riflessioni d'un militante:
— I preti vorrebbero far penetrare Cristo nella massa operaia: ma la maggior parte dei preti non ha il cuore operaio, e disgraziatamente alcuni di essi non amano gli operai. Non hanno capito: non c'è da stupirsene, perchè quasi tutti ignorano che cosa sia «guadagnarsi la vita», in una fatica spesso dura, oltre all'incomprensione dei capi che considerano l'operaio come una macchina. E molti preti pretendono, con prediche più o meno ben fatte, di far entrare Cristo nell'anima di questi uomini! Io dico piuttosto che la nuova generazione dei preti giovani dovrebbe viverne la vita per un certo periodo di tirocinio: dopo, non avrebbero più bisogno di introdursi a forza in un cuore operaio. Capirebbero meglio la vita di Cristo operaio.
Questa esigenza può sembrare eccessiva. Eppure voi non ignorate che nell'ora attuale parecchi esperimenti in questo senso sono tentati da preti che per un certo tempo si fanno letteralmente «operai con l'operaio». Chissà se quegli esperimenti non potrebbero essere generalizzati per coloro che vogliano specializzarsi nell'apostolato della massa?
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