Ma come fare, per spazzar via questo ostacolo? Le opere non vivono d'aria. In realtà i preti soffrono in linea generale, per essere costretti a tendere sempre la mano; non per sè, però: il loro bilancio è disastroso. Dove troverebbero denaro, se non lo chiedessero ai fedeli?
Siamo d'accordo: la difficoltà è grande e richiede una risposta in parecchi tempi.
Anzitutto un'osservazione preliminare, che ripetiamo instancabilmente a proposito di tutto: non pretendiamo di risolvere qualche cosa, ma presentiamo un problema. Se vi diciamo come la nostra squadra esamina la soluzione per la nostra parrocchia, non è per proporci come modelli, come esemplari più abili degli altri. Non siamo che fratelli in mezzo ad altri fratelli, preoccupati delle medesime questioni. Trovare la soluzione è opera di tutti i nostri fratelli nel sacerdozio e noi sappiamo che molti vi si applicano, non solo in teoria, ma anche in pratica e con successo. Mentre stiamo finendo questo capitolo, riceviamo la visita di don Remillieux, il famoso parroco di Nostra Signora Sant'Albano, nei dintorni di Lione, il quale da venticinque anni ha totalmente eliminato la questione di denaro dal campo dove devono solo trionfare la preghiera e la parola di Dio. Ciascuno conosce le esperienze di Mons. Chevrot, parroco di San Francesco Saverio, in questo campo. In molte diocesi si sono prese interessanti decisioni relativamente alle questue, alle sedie, alle «classi», ecc....
La nostra ambizione è dunque solo quella di portare un contributo a questa impresa. che è insieme di demolizione e di costruzione: bisogna demolire ciò che ingombra la strada, affinchè possiamo costruire col popolo la Città di Dio.
In secondo luogo, non dimenticate che nei nostri colloqui noi abbiamo sempre in vista la parrocchia popolare, posta in mezzo a gente pagana infarcita di pregiudizi anticlericali ed accessibile ai fatti assai più che alle discussioni e alle spiegazioni. Conveniamo volentieri che in una parrocchia di cristianità, dove tutti sono d'accordo sulla base, la funzione antiapostolica del denaro è minima.
Del resto, anche lì certe indelicatezze di forma urtano profondamente i buoni cristiani, e possono generare pericolose reazioni negli altri. Senza contare che la cosiddetta parrocchia «di cristianità», nell'ora attuale, specialmente nelle città, comporta un elemento popolare che non bisogna dimenticare. Senza poi contare che il modo d'agire di una parrocchia influisce sull'opinione pubblica in generale, e che noi siamo tutti solidali gli uni con gli altri. Quando un parroco dei dintorni avrà superata la questione del denaro in casa sua, non avrà concluso niente, se dovrà incontrare l'obbiezione:
— Sì, ma... voi siete un'eccezione: guardate ciò che succede altrove...
In ogni caso, nelle nostre parrocchie «di missione» il problema è così grave, che non bisogna esitare a riesaminare gli altri nelle prospettive che esso offre.
Sì, va bene: ma... ritorniamo alle vostre opere: come le vorreste sostenere?
Ecco, è proprio forse su questo punto che ci sarebbe modo di cercare una soluzione che riduca le spese, mentre le nostre opere, così come sono condotte, fanno penetrare ancor più l'obbiezione nel cervello della gente. Ricordate ciò che abbiamo detto, le nostre riserve riguardo alle opere, la nostra preferenza per l'apostolato diretto. Le difficoltà che in questo momento esaminiamo parlando del denaro ci fanno abbondare nel medesimo senso. Le nostre opere costano molto; come dicevamo, il loro risultato missionario è scarso; ma per di più esse ci fanno passare per uomini danarosi, il che rovina in parte questo risultato... Il bilancio d'un apostolato diretto, come noi l'abbiamo abbozzato, si equilibrerebbe con molto meno denaro: i doni spontanei (o richiesti a qualche persona più agiata) basterebbero, senza bisogno d'un continuo «appello al popolo», o di ingegnose trovate per riempire la cassa. Certo, c'è sempre necessità di fondi; l'organizzazione delle nostre cerimonie e feste popolari in chiesa, la carta che stampiamo in abbondanza per raggiungere gli infedeli, sono spese onerose. Ma è meno oneroso delle costruzioni e degli arredamenti di sale parrocchiali, dei giuochi, delle passeggiate, ecc... Quanto denaro inghiottito notoriamente in quegli edifici dove l'opera di Dio non progredisce affatto! Certi curati sembrano affetti da una vera «malattia della pietra»: da una parrocchia all'altra, passano la vita a costruire: e quindi a fare prediche di carità, lotterie, banchi di beneficenza, e via di seguito. Al termine della loro vita, avranno maneggiato molto denaro, edificato solide costruzioni (che la persecuzione seguente ruberà ai loro successori): ma quante anime? Si fa costruire e ci si inorgoglisce di farlo in «pietra da màcine», di fare «cose definitive», quando le opere per cui si realizzano quei locali sono così fluttuanti, e le sale così spesso chiamate a mutare destinazione. Si vuole possedere (per esempio un locale di colonia estiva, che serve al massimo tre mesi dell'anno), quando partiti politici o società filantropiche si accontentano d'affittare gli edifici di cui si servono, salvo a sloggiare ogni tanto.
Quando si tratta di costruire una chiesa e di adattarla nel miglior modo ad una liturgia vivente, non si perde il tempo. Ma per il resto? Iddio non ci perde, invece di guadagnarci? Uscendo da una visita, durante la quale il parroco gli aveva mostrato con fierezza le belle sale che aveva appena ultimate, un sacerdote malizioso gli disse:
— Insomma, non resta più che da riempirle.
— Eh, sì. — rispose ingenuamente il curato. Non resta più che da riempirle.
Ma con che cosa? Egli faceva ormai la figura d'un proprietario ben sistemato: era in condizione favorevole per trascinare le masse? Non aveva per lo meno invertito l'ordine dei fattori?
La pratica della povertà evangelica, con ciò che essa comporta d'incertezza per il domani e di rimessa nella Provvidenza, non dovrebbe avere la sua parte nelle nostre realizzazioni di apostolato?
Ma una buona parte del denaro che il clero domanda va ai poveri e ai loro figli. Esso dà largamente: elemosine, dispensari, colonie estive, ecc... Il denaro che scivola fra le sue mani va ai bisognosi; questo è visibile! Almeno lì non gli si può rimproverare nulla.
Esatto! Noi diamo abbondantemente e con facilità: non facciamo indagini, non esigiamo documenti, come negli uffici municipali. Ma siamo sicuri che questa liberalità non si rivolti talora, nel cervello del popolo, contro i suoi autori?
Istintivamente — l'abbiamo già notato — il popolo crede che dietro quei doni vi sia un'inesauribile fonte di denaro, una misteriosa impresa bancaria che ci sovvenziona per scopi di dominio sociale. I doni e i soccorsi ci attirano meno simpatia di quanto crediamo. Siamo in un'epoca in cui la carità è «istituzionale». Municipio, associazioni, società filantropiche, partiti politici fanno a gara a chi avrà le più belle opere di mutuo soccorso. Il popolo capisce che lo si vuole comperare: approfitta di tutto ciò che gli viene offerto da ogni parte, ma sta in guardia. Così si comporta verso le nostre opere cattoliche di carità, con diffidenza ancor più viva. Per esempio, noi iscriviamo il tale bambino alla nostra colonia estiva, distribuiamo giocattoli a Natale: non illudiamoci però di attirare con ciò qualche simpatia per i «benefici della religione», nè di determinare un pubblico riconoscimento della carità cristiana. Che figura fanno i nostri poveri balocchi da dieci lire al pezzo, di fronte alla sontuosa scatola offerta in municipio o in fabbrica? E soprattutto rendiamoci conto che assai spesso, venendo a far iscrivere il figlio alla colonia, o venendo al nostro dispensario, i genitori hanno l'impressione di usarci una cortesia, di compromettersi con la chiesa... e d'aver diritto alla nostra riconoscenza.
Mi risuona ancora all'orecchio la riflessione d'una mamma, il cui figlio era stato assunto nella L.O.C. Eravamo nel 1943, al momento in cui i bombardamenti della zona di Parigi facevano sì che i genitori desiderassero allontanare i figli. La L.O.C. si era messa in cerca di famiglie della L.A.C. disposte ad accogliere bambini delle famiglie operaie.
Noi preti godevamo di quel bel gesto di carità cristiana e ci «rallegravamo» in anticipo del bene che esso avrebbe potuto fare alla nostra gente. Disgraziatamente (ancora il clericalismo!) volemmo andare troppo in fretta ed organizzare noi stessi, per mezzo della nostra assistente sociale, quel servizio di evacuazione. Sarebbe certo stato più complicato — ma più vero, più efficace dal punto di vista missionario — lasciare che i militanti locisti agissero da sè: sarebbero andati dai loro vicini, avrebbero parlato dei loro amici cristiani di campagna che si offrivano d'ospitare qualche bambino: sarebbe davvero stato un esempio di carità personale. Invece vi fu un'organizzazione che s'incaricò amministrativamente della cosa. Ed ecco il risultato: in ottobre, la mamma di cui sopra volle che suo figlio ritornasse; venne da me, e siccome il ritorno era andato un po' per le lunghe, mi disse:
— Io voglio, sì, affidare il mio bambino alla società; ma almeno questa società faccia le cose sino in fondo!
Dov'era il beneficio cercato e fatto per l'ideale cristiano?
Come concludete questa requisitoria? Pretendete di sopprimere le questue, le classi, le spese di cancelleria, i soccorsi ai bisognosi?
Noi non pretendiamo niente: non siamo l'amministrazione ecclesiastica, non abbiamo una veduta di insieme su tutti i casi che possono presentarsi. Constatiamo in primo luogo, e vorremmo far comprendere come noi lo comprendiamo, che è questo un problema importantissimo, che tutti devono esaminare. E se ci sarà concesso di suggerire e di augurare qualche cosa, diremo:
- Parliamo meno di denaro dalla cattedra della verità. I nostri fedeli ci saranno grati, se ci estenderemo meno sui nostri bisogni per dare loro un po' più di dottrina: debitamente avvisati che non vogliamo importunarli con frequenti appelli, risponderanno generosamente ad un breve invito come ad un interminabile discorso.
- Non diamo mai l'impressione d'essere interessati, di dare al denaro un valore esagerato, come se contassimo sul denaro per far progredire il regno di Dio: ed ancor meno l'impressione che consideriamo più il ricco che il povero, che lo riceviamo meglio, che gli usiamo maggiori riguardi.
- Se lo possiamo, sopprimiamo la locazione ed il pagamento delle sedie. Anche in una parrocchia borghese come San Francesco Saverio a Parigi, questa soppressione ha potuto aver luogo senza danno, per favorire il raccoglimento del culto: a più forte ragione da noi, nelle nostre parrocchie popolari, dovrebbe avere buon esito l'argomento apostolico di cui abbiamo parlato. Al Sacro Cuore di Colombes, noi non abbiamo nessun posto dato in affitto, e curiamo molto che siano evitate le questue nei giorni di grande affluenza: Ognissanti, Natale, Domenica delle Palme, Pasqua. Per non dover percepire il pagamento delle sedie in quei giorni, ecco che cosa abbiamo proposto ai nostri parrocchiani:
— Abbiamo calcolato che voi pagate quindici lire all'anno per le seggiole: per evitarlo di chiedervelo ogni domenica, il denaro verrà raccolto tre volte all'anno, all'uscita dalle messe domenicali. Siete invitati a dare allora cinque lire per persona.
Scegliamo sempre, per annunciare e per fare tale questua, due domeniche consecutive in cui vi siano solo i frequentatori abituali della messa, senza cioè nessuna festa speciale. Naturalmente non si fa mai questione di sedie o di questua nelle cerimonie serali, perchè il nostro principio è che si può fare appello alla comunità cristiana per sovvenire alle spese del culto, ma che non bisogna mai invitarvi quelli di fuori. - Riduciamo il più possibile le questue. Noi ne facciamo solo una, al Credo, e breve: mai fuori dalla messa. Ci sembra che non si dovrebbe approfittare di tutte le funzioni religiose per tirar fuori il piattello. La questua deve chiaramente apparire una partecipazione dei fedeli all'offertorio: realizzata così, si deve mantenere, perchè fa parte della liturgia. Anche qui è interessante l'esempio di San Francesco Saverio, dove il denaro viene raccolto dagl'incaricati che passano all'estremità dei banchi e portano all'altare le offerte così riunite. Se ci si preoccupa che questo procedimento debba nuocere alle nostre opere, si abbia un po' più di fiducia nella Provvidenza. Ci fu riferito che un parroco, avendo udito per radio il racconto dell'esperienza di San Francesco Saverio, disse con aria niente affatto convinta:
— Credete a me: nulla vale di più della questua fatta dal curato stesso, e con un piattello.
E siccome gli fu fatto osservare che una questua così rapida, fatta da giovani, aveva il vantaggio di non disturbare a lungo i fedeli, e che se anche la raccolta era meno abbondante era almeno più apostolica, ribatté:
— Ma allora che sarà di noi?
Ci permetta quel parroco di rispondergli coi seguenti fatti. Non vorremmo passare per illuminati: ma è proprio necessario invocare il miracolo, credendo nella Provvidenza? È forse un tentare Iddio il rimettere a Lui la cura di ristabilire l'equilibrio in un bilancio di cui compromettiamo l'equilibrio per il bene delle anime?
Cinque anni or sono, sino dalla prima Comunione solenne che celebrammo nella parrocchia, ci venne l'idea di non chiedere niente ai genitori, nè per i posti, nè per il cero, nè per l'offerta. Preoccupati però d'una misura che poteva essere troppo ardita e che minacciava di compromettere seriamente il nostro bilancio, ci sentimmo portati a chiedere a Dio una risposta diretta; Gli dicemmo perciò con tutta semplicità:
— Signore, se il nostro progetto Vi piace, ce lo dimostrerete facendo sì che troviamo in una cassetta delle elemosine un'offerta insolita.
Pochi giorni dopo, il sagrestano incaricato di raccogliere il denaro delle cassette, venne a dirci stupefatto:
— Guardate che cosa ho trovato nella cassetta della Madonna!
Era un biglietto da mille. E non basta: Iddio completò la Sua risposta, già abbastanza eloquente, facendoci arrivare un'altra offerta insolita, esattamente corrispondente al deficit derivato nella cassa parrocchiale dalla «mancanza di guadagno» che ci eravamo imposta.
Da allora, ogni anno, all'epoca della Comunione solenne, la Provvidenza ci fa giungere in un modo o in un altro la sua quota. Un anno, ad esempio, morì una povera vecchia, che viveva del sussidio della Mutua: pochi giorni dopo (eravamo prossimi alla grande cerimonia) sua figlia venne a portarci una busta chiusa.
— Mia madre ha lasciato questo per la parrocchia.
Con nostra grande sorpresa, trovammo 6000 lire!...
E l'hanno dopo, sempre nella stessa epoca, ecco un'altra busta misteriosa: altre 6000 lire e due righe:
— Avevo promesso questa offerta all'epoca dello sfollamento: non so perchè ho atteso tre anni prima di darvela.
E così ogni anno: ed il fatto è tanto più strano, in quanto che non siamo abituati a tanta grandiosa liberalità. - Auguriamo con tutto il cuore l'abolizione delle classi» a pagamento nei matrimoni e nei funerali. Nulla possiamo fare in merito, nè noi nè i curati che ci leggeranno: sentiamo però con gioia la notizia che queste questioni sono allo studio presso le competenti autorità. Quel che possiamo fare, e che facciamo, si è anzitutto di dimostrare apertamente col nostro atteggiamento a chi viene da noi prima d'un matrimonio o d'una sepoltura che ciò che ci interessa e che deve interessare lui è il sacramento che egli riceverà o le preghiere con cui bisogna circondare il suo defunto, non il denaro. Cerchiamo d'entrare in comunione d'anima con la gioia o col dolore di chi ci visita e di bandire ogni spirito amministrativo. Ciò che possiamo fare, e che facciamo, si è di attenuare il più possibile le differenze, trattando con eguale onore e con una liturgia così religiosamente celebrata sia i ricchi che i poveri. Dal momento in cui si ottiene una comunità in preghiera — come spiegammo parlando della liturgia le apparenze esteriori spariscono in gran parte agli occhi degli astanti.La signorina M. I. è una giocista che ha lottato per parecchi anni a favore della penetrazione del cristianesimo nell'ambiente operaio parigino. Appartiene ad una parrocchia popolare, di cui segue le funzioni con la regolarità concessale dal suo apostolato. Alla vigilia d'entrare in un monastero di contemplative (dopo averci detto mille volte: «Quel che temo di più nella vita religiosa è d'essere sicura che non mi mancherà più nulla, mentre la mia famiglia si troverà forse nelle strettezze»), ci scrive:
— La gente del popolo è profondamente urtata dal prezzo elevato delle cerimonie e dalle differenze di classe. Mi sembra difficile sopprimere queste ultime, ma non si dovrebbero rialzare le classi inferiori con un po' più di solennità? celebrare, per esempio, la messa per tutti i casi, per i ricchi e per i poveri? Ci potrebbe essere maggiore o minore apparato, ma sarebbe almeno salvaguardato l'essenziale, segnando così l'importanza della funzione che si fa. Si tratti di matrimonio o di funerale, per un ricco o per un povero, vi è la stessa grandezza in sè... Bisogna approfittare delle cerimonie come matrimoni, sepolture. battesimi, per essere molto vicini alla gente, non per agire come funzionari. Abbiamo già detto che il nostro ideale sarebbe di poter misurare la solennità esteriore delle nostre cerimonie non con le sostanze degli interessati, ma con la loro qualità cristiana, circondando di speciale splendore il matrimonio e il funerale dei nostri migliori militanti e riducendone al minimo l'apparato quando si tratta di gente che non viene mai in chiesa. Non è, del resto, lo spirito del Diritto Canonico? - Infine — come dicemmo parlando delle opere — ci sembra che il clero farebbe bene a scaricare su laici cristiani le opere di carità, sotto tutte le loro forme.
Io penso che la povertà del clero stesso sia abbastanza manifesta per avere un valore apostolico.
La povertà personale del clero deve infatti essere una testimonianza in favore del Vangelo da lui predicato: una testimonianza ancor più parlante della nostra castità (di cui non è possibile dare la prova), una testimonianza che Cristo è per noi tutto e che tutto abbiamo lasciato per seguirlo. Sappiamo che questa testimonianza viene data da una moltitudine di preti che, in campagna specialmente, vivono quasi nella miseria. Non è universale: non la diamo a sufficienza, senza dubbio perchè dimentichiamo il suo valore. Non siamo ricchi, è vero, ma se un operaio viene nel nostro ufficio o nel nostro salotto, giudica ricchi i nostri mobili. Bisognerebbe che si sentisse presso di noi come in casa propria, che non fosse intimidito o sconcertato dalle comodità del luogo dove viviamo. Non siamo ricchi, ma abbiamo un tipo di vita comoda.
Durante le manovre militari, viene mandato qualche soldato con un biglietto d'alloggio al presbiterio (fatto piuttosto raro, perchè di solito vi si manda piuttosto un ufficiale). Per aiutare quei ragazzi a trovare la casa, si spiegò loro che era «la casa borghese accanto alla chiesa» …
Giovanni C. è un nostro bravo militante. Cristiano convinto e ardente, porta nella sua azione tutta la maturità di un padre di famiglia che ha varcato la trentina. Senza essere completamente ostile alla religione in passato, fu a lungo trattenuto da tutte le obbiezioni che circolano nel suo ambiente operaio. La scoperta della nostra mistica cristiana in tutta la sua forza gli ha permesso di sorpassare tutti quei pregiudizi; ma recentemente egli diceva ad uno di noi quanto gli era riuscito penoso vedere che il clero lasciava fra sè e la massa tante barriere; esse ormai non sono più un ostacolo per lui, ma lo impacciano tremendamente nel suo apostolato e sono per molti una causa di fermata nel loro cammino verso l'ideale cristiano. Egli ci disse:
— Il clero dà troppo l'impressione di una vita facile: quando usciamo dalle nostre case operaie con tutti i fastidi, talora angosciosi, delle nostre famiglie ed entriamo in un presbiterio tranquillo e confortevole, non ci pare più d'essere in casa nostra... E perchè i preti danno tanto l'impressione di fare del commercio? Se guardiamo l'amministrazione di certe parrocchie, ci sembra di trovarci di fronte ad una vasta impresa ben organizzata. C'è un prete per i battesimi, uno per i funerali, un altro per i matrimoni: e tutto in serie, come in una fabbrica d'automobili. Quando una giovane coppia o i genitori vengono a chiedere una messa di matrimonio, non è raro che per tutta risposta si sentano dire: «Di quale classe?» E il prezzo si uniformerà alla risposta degli interessati. Il prete che risponde così fa la figura di un onesto commerciante, che serve materialmente i suoi clienti... E perchè il clero mantiene solide simpatie con industriali e commercianti, solo per il fatto che hanno il portafoglio gonfio e sanno mostrarsi generosi all'occasione, mentre col loro personale dipendente non danno prova di senso sociale?... Povero popolo! — (così concluse il nostro militante) — Gli sarebbe tanto più facile capire il messaggio di Cristo, se si cominciasse col dargliene una testimonianza vivente!
Un altro militante, egli pure convertito, parlava nello stesso modo, assicurando che la grande obbiezione non è — come si potrebbe credere — la tal storia scandalosa (vera o falsa che sia), ma «la pretesa d'un numero troppo grande di preti di vivere agiatamente» e ciò che egli chiama «le loro esigenze commerciali». Secondo lui (e con suo rincrescimento) «il clero vive troppo poco col mondo operaio».
Una militante operaia si chiese se la Chiesa è borghese e si risponde:
— Sì: noi sappiamo che i parroci, tranne qualche eccezione, non conoscono la povertà, anzitutto perchè non la vivono e poi perchè non la esaminano nelle case altrui. La maggior parte di essi non sa che cosa significhi aver fame: sì, aver fame, provare (magari solo per un giorno o due) l'insufficienza del cibo ed accettarla per amor di Dio; ecco che cos'è la povertà! Se volessero privarsi ogni tanto di certe cose per vivere questa povertà, sarebbe una bella cosa! Avrebbero allora il diritto di dire dal pulpito la frase che ho sentita io quindici giorni fa: «Fratelli, manchiamo di molte cose: ebbene, accettiamo ed offriamo ciò al Signore; ma soprattutto dividiamo le nostre piccole provviste con chi non ne ha» ... Ma questo capita di rado. Quanti preti si circondano di cure delicate! Il curato d'Ars era meno schizzinoso e ne ha guadagnato in salute: vivendo rozzamente, ha capito meglio la gente semplice e rozza, e per opera sua molti hanno amato Cristo.
Queste osservazioni sono piuttosto dure e noi le riteniamo persino ingiuste per certi confratelli che conoscono realmente le privazioni e danno generosamente quel che hanno a chi non ne ha. Dobbiamo però riconoscere che in molti casi toccano nel segno. Noi non siamo ricchi, ma non viviamo in una condizione d'incertezza per il domani come l'operaio. Ebbene, è appunto questa condizione d'incertezza, di cui abbiamo orrore, quella che caratterizza la vita proletaria e che ci renderebbe simili alla gente del l'ambiente popolare.
Noi ci sistemiamo a poco a poco nell'esistenza e troviamo che si sta benissimo; al punto che nel linguaggio clericale «una buona parrocchia» è diventata sinonimo non d'una parrocchia, in cui si è in piena lotta per la conquista, ma d'una parrocchia dove la sicurezza materiale del clero è meglio garantita che altrove: al punto che anche da noi si fa carriera e questa carriera consiste nell'essere mandati non nella parrocchia dove c'è più lavoro da fare, ma nella «buona parrocchia» di cui sopra. Figuratevi se non c'è qui una condizione di spirito veramente mediocre rispetto all'apostolato, e bisognosa d'una riforma!... Certo, noi non siamo più dei feudali; siamo liberi dalle proprietà dell'Antico Regime, gli alti e bassi della Borsa non tolgono il sonno a molti nostri confratelli, e le nostre risorse quotidiane provengono più dalla generosità dei poveri che dalla liberalità dei capitalisti. Con tutto ciò, in un ambiente popolare le apparenze ci classificano ancora troppo fra i borghesi, perchè possiamo avere su di esso l'irresistibile ascendente dei primi Apostoli, d'un San Martino, d'un San Francesco, d'un San Domenico, d'un San Vincenzo de' Paoli, d'un santo curato d'Ars; e troppo «rumore di moneta intorno all'altare» impedisce al popolo d'accostarsi.
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