Ma intanto?

Intanto, c'è pure qualcosa da fare? Ed ecco le nostre idee fondamentali sul problema.

Riflettiamo: nelle nostre parrocchie dei sobborghi, nelle nostre parrocchie missionarie, si agisce come si agirebbe in parrocchie di paesi cristiani. Il manuale è identico per i bambini di Anjou, e per i monelli del circondario. Il regolamento è presso a poco uguale, nel catechismo, per gli uni e per gli altri, tranne che i parroci d'Anjou sono più esigenti verso bambini che, in fondo, sanno già tutto, mentre noi siamo più tolleranti verso bambini che non sanno niente. Si dimentica che in un caso si tratta veramente di catechismo, cioè di riassumere e controllare l'insegnamento della famiglia, mentre nell'altro si tratta piuttosto di un vero catecumenato.

Ora, un catecumenato a quell'età, quando si sa che i genitori vi acconsentono solo per la cerimonia, che cosa può significare? Siamo seri: stiamo per chiedere a bambini di dieci anni d'impegnarsi per la vita; ma che cosa sanno essi della vita e che cosa sono capaci di volere? Dipendono ancora in tutto e per tutto dai genitori, e questi — l'abbiamo accennato — non sono cristiani: è dunque illusione e menzogna far loro assumere un impegno che non potranno mantenere, salvo eccezione. Senza contare che quell'insegnamento religioso è l'unico bagaglio che essi porteranno attraverso la vita. A questo misureranno in seguito la religione: a venti o trent'anni ne discuteranno secondo ciò che avranno imparato in quel momento. Ebbene, di tutto il nostro insegnamento, di tutta la nostra preparazione, il bambino non ricorderà che un'unica cosa: e cioè che per due anni noi gli abbiamo affermato cose che non bisogna credere e che gli affari della Chiesa sono gesti e parole senza importanza, dal momento che noi lo abbiamo così solennemente e meticolosamente preparato ad un solenne spergiuro.

Trattandosi di catecumenato e d'impegno, non sarebbe più realistico riservarlo per molto più tardi? Anche rinforzando e perfezionando il corpo dei catechisti, anche riformando i manuali, anche tentando di tradurli da sè nel modo migliore, rimane il fatto che il nostro catecumeno, a 10 o 12 anni, non può essere indirizzato per la vita, finchè il suo ambiente è ostile. Un po' più tardi, verso i 15 anni, egli comincia invece a svilupparsi e a reagire in modo efficace riguardo a ciò che viene proposto alla sua attenzione. Guardate i nostri catecumeni di vent'anni: in capo ad un mese la sanno più lunga che i bambini del catechismo dopo due anni. E soprattutto «abboccano» a ciò che si dice loro, lo scoprono da sè, lo fanno diventare vita personale. Tutti i nostri militanti constatano che agganciare a vent'anni un giovane totalmente ignorante di cristianesimo è più facile che agganciare un altro che abbia fatto la Prima Comunione, che abbia seguito il catechismo, che sia presto diventato indifferente a discorsi che non era capace d'assimilare.

Non spetta a noi modificare i costumi diocesani; ma è nostro dovere dire quel che constatiamo, per esempio che l'attuale regime della Comunione contribuisce a formare degli indifferenti (che sono forse peggiori degli ignoranti completi) e non dei cristiani. Avremmo certo meno gente, se esigessimo il catechismo intorno ai 15 anni e l'impegno a 17 o 18; ma quest'ultimo sarebbe altrimenti effettivo . e rappresenterebbe qualche cosa. Il consumo totale sarebbe meno grande. La comunità cristiana avrebbe la possibilità d'essere di nuovo valorizzata. L'ansia del numero — non importa come e con tutti i mezzi — indebolisce le nostre comunità e le riduce infine a quello stato scheletrico ed amorfo che ben conosciamo.

Ma c'è il decreto di Pio X, circa la comunione dei bambini in giovane età...

Ci aspettavamo questa obbiezione! Sarebbe l'ora di mettersi una buona volta d'accordo e capire che in tutto il suo decreto Pio X pensa solo ai bambini di famiglie cristiane. Per questi, è semplicissimo. Accompagnano i genitori al banchetto sacro, come alle volte ad un banchetto profano. Il giorno in cui possono distinguere il pane eucaristico dall'altro, un banchetto dall'altro, basta così e noi comprendiamo che siano ammessi persino a 4 o 5 anni. Sono coi loro genitori: la mamma si prepara con loro e con loro fa il ringraziamento. E tutta la famiglia porta via Cristo con sè, intorno a sè.

Ma per i nostri poveri piccoli di famiglia pagana, tutto è ben diverso. Hanno bisogno d'essere trattati in altro modo.

Per l'amministrazione del sacramento del matrimonio, però, sarete comunque obbligati a seguire gli usi attuali, non è vero? Non si può rifiutare la benedizione nuziale ai fidanzati che vengono a chiederla, anche se sono mediocrissimi cristiani e non hanno nessuna nozione del sacramento che stanno per ricevere.

Purtroppo! ma non è la cosa più rassicurante, perchè — per il matrimonio — ne va di mezzo la stessa fedeltà al sacramento. Ora, che cosa ci si viene a domandare?

Mesi fa, venne una giovane fidanzata, che voleva informarsi delle formalità necessarie. Mi confessò di non aver fatto la Prima Comunione, e quindi niente catechismo. Soggiunse però che ci teneva a sposarsi in chiesa e che aveva dovuto faticare molto per indurre al matrimonio religioso il fidanzato, il quale aveva fatto la Prima Comunione. Ecco dunque che, di quella coppia, chi veniva a chiedere la benedizione nuziale era colei che ignorava assolutamente tutto della religione e del sacramento a cui doveva accostarsi. Quali conseguenze nella vita?
Giorni or sono, nella cappella di soccorso, una ragazza subiva l'inchiesta canonica.
— Respingete ogni idea di divorzio?
A questa domanda, essa rispose schiettamente:
— Oh, reverendo! Capirete che, se un giorno mio marito mi tradisse, non esiterei a divorziare.
— Allora, signorina, non posso sposarvi in chiesa, perchè il matrimonio religioso non può essere rotto.
Dopo una bella spiegazione, la ragazza se ne andò, comprendendo di non potersi impegnare davanti a Dio, perchè non era decisa a rinunciare al divorzio. Poco dopo arriva sua madre e pianta una bega:
— Reverendo, voi disonorate mia figlia! Per chi l'avete presa? Merita d'essere sposata in chiesa: è sempre stata seria... ecc...

Continueremo a lungo a dare così il matrimonio a gente che, assistendo alla cerimonia, non riceverà forse neppure il sacramento? Poichè siamo d'accordo, vero? Perchè il sacramento sia valido, bisogna che vi sia l'intenzione d'impegnarsi realmente dinanzi a Dio sino alla morte e di dare la vita come il Buon Dio lo vorrà. Bisogna almeno che l'intenzione contraria non sia esplicita! Ora, che cosa si chiede a noi? che cosa si vuole da noi? Il sacramento? Macchè! La cerimonia esteriore, l'organo; i canti, i fiori, l'addobbo, l'assistenza. Perchè renderci complici di questa ipocrisia? Perchè rendere il sacramento «schiavo» d'un semplice capriccio di vanità, di mondanità? E peggio ancora si è (vi torneremo su nel prossimo colloquio relativo al denaro, ma intanto bisogna sottolinearlo sin d'ora) che noi ci siamo resi con le nostre cerimonie i servitori delle vanità umane. Le abbiamo organizzate in modo da darle non ai più cristiani, ma a chi le paga di più. Se si sposa una ragazza cristiana, che non fa parte di nessuna opera e non avrà quindi diritto a nessuno dei privilegi (così piccoli, del resto!) accordati alle Figlie di Maria e alle giociste, se quella ragazza è povera, il suo matrimonio potrà solo consistere in una «semplice benedizione all'altare minore»: invece la sua vicina, che non mette mai i piedi in chiesa, ma che è figlia d'un grosso impresario, avrà la navata centrale, tutti i tappeti e tutto il clero presente.

Lasciamo per ora da parte questo contrasto sgradevole e ripetiamo che rendiamo un cattivo servizio agli indifferenti, accettando di sposarli in chiesa. Essi non hanno il sentimento dell'impegno indissolubile: se li incalziamo con le domande, ci accorgiamo che la possibilità del divorzio non è del tutto esclusa dalle loro prospettive sull'avvenire. Non vi pensano immediatamente, beninteso: ma se ciò diventasse necessario ai loro occhi, non vedrebbero perchè bisognerebbe rinunciarvi. Noi glielo spieghiamo: basta questa spiegazione per convincerli e per metterli in una disposizione d'animo diversa? Ahimè! no: lo sappiamo. È tutta una mentalità da rifare. Il giorno in cui, in conformità ai loro pregiudizi, vorranno divorziare, non potremmo registrare il loro divorzio davanti all'Ufficialità.

Bisognerebbe avere la prova che il loro matrimonio era nullo sin da principio: la Chiesa esige questa prova ed ha ragione di farlo, perchè senza di essa chiunque potrebbe un bel giorno dichiarare di non aver avuto l'intenzione d'impegnarsi per sempre (il che è, infatti, un caso di nullità). Andate dunque ad ottenere quella prova! Ecco dunque la nostra gente o condannata a vivere insieme, o costretta a separarsi senza intenzione di un nuovo matrimonio, o ridotta ad essere esclusa dalla comunità cristiana. Se l'uno o l'altro, strada facendo, si è convertito ed è diventato un credente sincero, desideroso di vivere cristianamente, mentre il suo congiunto non ha seguito la stessa evoluzione ed esige il divorzio, in quale ginepraio l'ha messo la nostra accettazione di sposarlo in chiesa! Egli rimpiangerà allora amaramente di non aver contratto solo il matrimonio civile, quello a cui era precisamente adatto... Quanti drammi di coscienza eviteremmo, applicando più onestamente le esigenze della Chiesa!

Come risolvere praticamente questi problemi?

La prima soluzione è manifestamente quella di mettere tutta la nostra cura nel preparare bene al matrimonio tutti i fidanzati che si presentano, senza nascondere loro la verità. In quel momento della loro vita, i nostri giovani sono spesso molto disposti a ricevere, nella prospettiva del focolare che li riempie di speranza, in quella prospettiva d'amore che li unisce e li porta avanti. Tocca a noi trovare la «lunghezza d'onde» che ci permetta di captarli e di far loro del bene. Un prete che abbia zelo e tatto può ottenere magnifici risultati... E tuttavia, sarà solo un palliativo.

Noi dobbiamo ancora rovesciare l'ordine dei valori nella celebrazione stessa della cerimonia nuziale. La cerimonia più bella e più solenne, ma anche la più ricca di preghiere e la più comunitaria — quella della parrocchia che circonda d'onori e di preghiere due dei suoi figli che fondano un focolare cristiano — riserviamola a coloro che sino al matrimonio si sono mostrati veri cristiani e per i quali il matrimonio è, in senso plenario, ciò che noi intendiamo per sacramento. Per gli infedeli pratici, una semplice benedizione senza fasto all'altare minore. E che la questione del denaro non venga a confondere i valori! Se, a questa condizione, chi non s'interessa al sacramento viene però a chiederci la benedizione nuziale, non gliela ricuseremo: ci sforzeremo anzi d'istruirli nel miglior modo possibile, affinchè il loro atto abbia un valore religioso... Se invece trovano che in questo caso non vale più la pena di sposarsi in chiesa, dove sarà il male? La situazione sarà più netta.

Nel paese si saprà che, per sposarsi in chiesa, bisogna voler fondare un focolare cristiano, che non si tratta d'una cerimonia puramente formale, che è una cosa seria: insomma, che la comunità cristiana è una realtà, non una finzione. Questo darà «scandalo» e «farà colpo». I cristiani saranno più fieri d'essere cristiani, e gli altri dovranno stimarli di più. Sarà un beneficio per tutti.

È facile capire che non sarà una cosa da nulla stabilire la linea di demarcazione: e noi sentiamo benissimo le proteste di certi confratelli. Riconosciamo noi stessi la difficoltà, mentre insieme vediamo la necessità e la saggezza di questa linea di condotta. Senza assumere da soli la responsabilità d'una tale iniziativa, crediamo però bene suggerirla, lasciando all'autorità competente la cura di dire se essa corrisponderebbe al vero bene della Chiesa.

Senza dubbio applichereste allora gli stessi principii alla sepoltura ecclesiastica.

A fortiori, poichè in tal caso non si tratta d'un sacramento, ma d'un onore reso dalla Chiesa alla spoglia mortale di colui che fu il tempio dello Spirito Santo. Attualmente, solo la questione del denaro distingue chi ha diritto a questo onore da chi non ne ha diritto. L'amministrazione delle sepolture è una amministrazione temporale, profana, in cui il parroco è l'esecutore delle alte opere delle «Pompe funebri». Esprimeremo meglio il nostro pensiero nel colloquio sul denaro: ma bisogna già insistervi ora, dal punto di vista in cui ci poniamo, quello del valore d'esempio della comunità parrocchiale. Abbiamo visto un curato mettere alla porta certi militanti, perchè non l'avevano salutato, ed accordare invece gli onori della sepoltura ecclesiastica «di prima classe» al gerente d'una casa di tolleranza... Come volete che, in queste condizioni, il popolo possa immaginare che vi sia una «vita» e non un affare o una speculazione?

Eppure, il Diritto Canonico non ha certe esigenze riguardo ai pubblici peccatori? Che conto se ne fa? Facciamo la figura di credere che sia per noi l'onore, quando si vuole chiederci di sotterrare qualcuno passando per la chiesa! O, per essere più esatti, immaginiamo di fare così opera apostolica:
— Non bisogna spegnere la miccia che fuma ancora... Non bisogna moltiplicare i funerali civili; è uno scandalo... Meglio chiudere gli occhi: è carità...

E via di seguito. Noi crediamo che la carità riguardo al popolo che bisogna illuminare, istruire, edificare, sarebbe precisamente nell'atteggiamento opposto. Perchè la miccia fumi ancora, è necessario che sia stata accesa.

Volete che vi racconti un fatto particolarmente piccante? Avevamo appena cominciato la distribuzione dei libretti per le sepolture e la lettura ad alta voce della traduzione francese delle preghiere liturgiche. È una cosa che facciamo da cinque anni ed abbiamo raccolto soltanto segni di soddisfazione da parte delle famiglie e degli astanti. Tuttavia, ci fu un'unica eccezione: il direttore d'una ditta di Pompe funebri, ottimo cristiano però, venne a farci notare che avremmo forse dovuto cambiare il nostro modo di procedere:
— Un signore che giorni addietro ha assistito ad una cerimonia funebre mi ha detto, uscendo dalla chiesa, che voi andate un po' troppo lontano, parlando così in chiesa: «voi attentate alla libertà di coscienza» dei presenti.
Allora, persino nelle nostre chiese, ci sarebbe una libertà di coscienza da rispettare! Anche lì non avremmo più il diritto di parlare apertamente e d'essere compresi! Si può misurare lo stato di aberrazione in cui il cervello della gente ha potuto essere gettato dalla pratica d'una liturgia incompresa?

Ci vorrebbe un atteggiamento socialmente logico con le esigenze cristiane, affinchè le nostre comunità brillassero come fiaccole e propagassero il fuoco che Cristo è venuto ad accendere. Circondiamo d'onori e di preghiere solenni gli autentici cristiani: riserviamo loro la mobilitazione dei preti e dei chierichetti. Diamo il minimo di pompa esteriore all'estremo opposto.

Eppure questi hanno, più degli altri bisogno di preghiere!

D'accordo: ma noi non parliamo di preghiera.

Chi ci impedirà di pregare in modo speciale per essi? Ogni giorno, in ogni messa, la Chiesa applica loro esplicitamente il sacrificio. E da noi, nella nostra parrocchia, si celebra una messa per ogni defunto, anche quando il funerale ha avuto luogo nel pomeriggio. Non saranno sprovvisti di preghiere, anche se il catafalco sarà stato meno bardato e non saranno stati eseguiti i canti e il clero non sarà stato al completo. Tutto questo non è per il defunto, ma per il popolo. Sarà meglio raggiunto lo scopo, quando il popolo vedrà, con ammirazione ed invidia, bei funerali in cui la comunità parrocchiale circonderà di preghiere solenni quei suoi membri che ne saranno stati degni.

Sì, il popolo fedele sarà soddisfatto, ma forse gli altri non capiranno e protesteranno.

Ci siamo! Eccoci ad uno dei punti cruciali del nostro problema. A furia di sminuire i sacramenti e i riti, siamo giunti ad equivoci che ci mettono in situazioni inestricabili, che conducono a vicoli chiusi. Certi confratelli dicevano giustamente:
— Liturgicamente parlando, non avete il diritto d'agire nel tal modo o nel tal altro.

Quante volte abbiamo sentito altri confratelli rispondere protestando:
— Ma se agiremo così, la nostra gente non ci capirà mai! Essa non capisce, per esempio, che nel corso delle cerimonie liturgiche si proscrivano certi strumenti, che si sopprima ogni apparato esteriore durante il triduo della Settimana Santa, che si interdica l'organo in Quaresima e nell'Avvento, che non si esponga il Sacramento durante la messa, ecc...

Infatti, se le nostre cerimonie si rivolgono ai non cristiani, il problema è insolubile: bisogna fare «ciò che piace», ciò che attira, non ciò che è maggiormente nello spirito della Chiesa. Se invece riserviamo i nostri riti sacri alla comunità cristiana, tutto è più chiaro e più facile. Bisogna fare ciò che la Chiesa domanda e formare i fedeli ad accettarlo.

Ma allora, che cosa diventa la vostra liturgia missionaria? e tutto ciò che avete detto in questo senso nel nostro secondo colloquio?

È appunto quel che bisogna distinguere, come abbiamo già fatto senza dilungarci: distinguere le due liturgie, quella della comunità dei fedeli e quella missionaria: o, se lo preferite, la vera liturgia e la para-liturgia.

Nello spirito della Chiesa, la liturgia propriamente detta è sempre stata riservata alla comunità cristiana. Ricordate l'«exeat» dell'Offertorio, dato ai catecumeni prima dell'inizio del Sacrificio propriamente detto... Eppure, i catecumeni ne sapevano ben più degli attuali cristiani!

Noi crediamo che vi siano modificazioni da fare, per rendere la nostra liturgia più comprensibile ad un popolo che ha cambiato mentalità: è questione di tempo! Ma perchè si dovrebbe rimaneggiarla da cima a fondo? Un missionario laico della Missione di Parigi, dopo una forte esperienza in piena massa, e persino in quello che si potrebbe chiamare il sottoproletariato, ci diceva:
— Reverendo, non c'è da cambiare gran che nella messa; anche il latino non è una difficoltà insormontabile. Ma la messa non è per tutti.

Siamo pienamente della sua opinione: la messa non è per tutti. Che cosa significano queste messe con gran rinforzo d'orchestra e di musica vagamente religiosa, che si dicono destinate ad attirare un pubblico per il quale la messa non ha interesse? le cosiddette messe «patriottiche», od altre in cui si convocano le autorità? Questo vuol dire fare della messa uno spettacolo, un'occasione di raduno, mentre essa è essenzialmente l'Assemblea dei cristiani riuniti per offrire il Sacrificio.

Si trovino pure altri pretesti per radunare le folle in un'atmosfera religiosa: ma «sancta, sanctis!». Del resto, è una ben mediocre apologetica quella di convocare gente ad uno svolgimento di riti di cui non capisce niente e da cui esce più che mai convinta che la religione è esoterica e fatta di «sciocchezze». Noi ci ingolfiamo in gineprai, perchè non sappiamo mai molto bene quel che vogliamo. Quando organizziamo le nostre cerimonie, favoriremo i ferventi? faremo concessioni agli altri, per averne il più possibile? Ecco che esitiamo: spacchiamo in due parti la mela, sia per questioni d'orario, sia per esigenze di partecipazione...

Sarebbe impossibile distinguere due generi di cerimonie, le une «missionarie» — destinate alla maggioranza, per attirarla e trascinarla — le altre riservate, per così dire, agli iniziati, a quelli che sono veri cristiani, che vogliono pregare in comune, secondo l'ideale della Chiesa che vogliamo loro inculcare? Se si facesse questa distinzione, ci sembra che se ne ricaverebbero ottimi risultati. Non è necessario che le cerimonie «missionarie» siano delle messe: ci sarebbe anzi da augurarsi che alla messa partecipassero solo i veri cristiani. Non metteremo, naturalmente, una guardia all'ingresso del tempio, per chiedere a chi entra il certificato d'identità cristiana e di fervore; ma se regoleremo le nostre messe in rapporto a chi vuole veramente vivere una vita liturgica, se esigeremo attivamente un'attitudine comunitaria e vivente (le stesse attitudini negli stessi momenti, il dialogo o il canto) anche nelle messe tardive, non credete che questo possa dare al nostro culto un andamento attraente per coloro che avrebbero voluto mescolarvisi? Ciascuno capirebbe che lì non c'è più formalismo, ma verità (5).


NOTA

(5) Perchè non chiudere le porte d'ingresso all'offertorio? Quanti pseudo cristiani pensano di aver soddisfatto il precetto venendo a respirare «un po' d'aria di messa» fra l'offertorio e l'elevazione, e andandosene poco dopo! Disturbano la preghiera in comune, danno un brutto esempio e s'illudono. Lasciandoli nell'illusione, si rende loro un servigio? Non sarebbe vera carità spingerli a scegliere fra il partecipare al Sacrificio o escludersene da sè?


Rimarrebbero per gli altri le cerimonie serali, le feste organizzate a loro intenzione, con tutta la varietà di ciò che è extra-liturgico, con le quali si praticherebbe largamente il «compelle intrare», e dove si preparerebbero gli astanti ad una seria partecipazione alla preghiera cristiana che è la messa, per il giorno in cui si muovessero per venirci. Bisognerebbe che capissero che noi non ci teniamo ad avere quanta più gente sia possibile, ma che alla messa si accede solo quando si è cristiani sul serio, perchè essa è l'espressione della comunità cristiana, una comunità alla quale desidererebbero un giorno appartenere, a causa del valore di vita che riconoscerebbero in essa.

Noi abbiamo torto, agendo in modo che la messa e i sacramenti perdano la loro vera portata: per esempio, a proposito della messa, ritorniamo ancora a quei bambini del catechismo di cui parlavamo dianzi a proposito della Prima Comunione. I teologi ci insegnano che la Comunione si capisce bene solo come parte integrante della messa. E tutti i trattati di pastorale sconsigliano dal distribuire troppo facilmente la Comunione al di fuori del santo Sacrificio. Ora, che facciamo noi coi bambini che ci arrivano ad otto anni senza sapere un'acca di religione? Per mesi e mesi, e magari per anni, li conduciamo ad assistere alla messa, col pretesto di prepararli alla Comunione!

Come toglieremo loro l'idea che la messa è soltanto un pio esercizio, al quale si è costretti durante il periodo di preparazione alla Comunione, ma che non comporta normalmente il fatto di ricevere l'ostia sacra? Siamo così abituati a questo metodo, che arriviamo difficilmente a concepirne un altro. Insistiamoci; sono catecumeni e noi dovremmo trattarli come tali, prepararli non solo a comunicarsi, ma a partecipare al Sacrificio dei cristiani per il giorno in cui ne fossero capaci. Bisognerebbe che tutto il loro catecumenato avesse questo scopo, che splenderebbe all'orizzonte ed in vista del quale verrebbero preparati con speciali cerimonie, più o meno ad un anticipo della messa. Il giorno in cui fossero contemporaneamente ammessi ad offrire il Sacrificio e a comunicarvisi, come i neofiti della Chiesa primitiva prenderebbero coscienza della grande grazia che sarebbe loro accordata: quella di partecipare all'Assemblea dei cristiani.

I nostri missionari dei paesi lontani ci dicono che col nostro regime non giungerebbero mai a costituire comunità cristiane viventi e ferventi. Questo ci ha fatto grande impressione, pur comprendendo benissimo le differenze tra il loro caso e il nostro. Ci sembra che, “mutatis mutandis”, si debbano trasporre le loro esigenze nel nostro campo, se vogliamo ottenere quelle comunità, che sono le uniche capaci di determinare nel nostro ambiente pagano un movimento di attrazione e di trasporto. Forse, da principio, sarebbe a danno del numero (?): ma ben presto il numero ritornerebbe, più considerevole e di qualità migliore, e resterebbe. Comprendiamo bene noi pure che questa realizzazione è difficile: perciò affidiamo queste pagine all'attenzione dei nostri confratelli, assai più come punti interrogativi che come espressioni di esperienze già fatte e riuscite. E ripetiamo che non alla nostra autorità, ma a quella della Chiesa, spetta dare le soluzioni.

 

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