3. — L'APOSTOLATO DIRETTO

 

Tutta la vostra argomentazione relativa alle opere è veramente impressionante; però (esclusa la stampa e i movimenti specializzati) essa sembra piuttosto demolitrice. Sento a questo punto i vostri confratelli dire: «Questo è forse tutto vero; ma con che cosa sostituite ciò che è indubbiamente troppo carico di temporale, troppo ristretto al magro gregge dei fedeli, troppo poco missionario, ma che ha il vantaggio di esistere e di fare un certo qual bene?»

 

Ci si comprenda bene. Noi non siamo negatori. Anche se avessimo ragione nei nostri lamenti e nelle nostre critiche, che bel vantaggio sarebbe quello di fermarsi lì? Noi abbiamo semplicemente voluto sbarazzare il terreno e far capire che incalzati dall'urgenza del lavoro missionario, noi, il piccolo numero dei preti di parrocchia cui è affidato un territorio affinché lo dissodino, non possiamo continuare all'infinito ad esercitare un ministero limitato al «piccolo gregge» o ingenuamente impelagato in metodi indiretti che non rendono in proporzione di quel che costano.

Credetelo pure: uscendo dal Seminario, noi non siamo sfociati di botto nelle conclusioni che sono le nostre d'oggi: come gli altri, abbiamo l'esperienza di ciò che oggi chiamiamo errori; ne commettiamo certo ancora molti. Ma noi vediamo disegnarsi la prospettiva d'un apostolato più immediatamente orientato verso il suo risultato: abbiamo la convinzione che è possibile e che, essendo possibile, avrà maggiore efficacia. Noi pure abbiamo conosciuto la tentazione (ed abbiamo ceduto) d'organizzare tutto sul piano naturale, affinché il soprannaturale trovasse, in questa organizzazione, dei quadri e delle forme in cui si potesse installare, diventando una potenza.

Come siete arrivati ad esaminare altri metodi?

A poco a poco, con differenti constatazioni o riflessioni che abbiamo avuto occasione di fare nella nostra vita di vicecurati o di parroci. Se lo permettete, ve ne faremo parte. Naturalmente non si tratta di cercare in quel che vi diremo un ordine cronologico e noi non saremmo certo capaci di darne uno.

In primo luogo, siamo stati colpiti dal fatto che, dovunque un militante ardente si presenta al popolo e parla senza reticenze delle sue convinzioni e del suo amore per Cristo, non stupisce soltanto, ma si impone: conquista, se non le adesioni, almeno la stima. Molte volte eravamo pronti ad accusare di mancanza di misura certe dichiara-zioni, o avevamo paura che i militanti spaventassero, urtassero la massa degli altri: ed abbiamo invece dovuto constatare che essi realizzavano meraviglie. È evidente che non parliamo di dichiarazioni forti... ad alta voce sulla pubblica piazza, né di discorsoni nelle sale di riunione. Il popolo ne diffida: troppe volte è stato ingannato, perchè ci caschi facilmente. Notate però che esso rimane assai meno seccato di quanto potremmo pensare per manifestazioni come quelle dell'«Esercito della Salvezza». A noi danno fastidio le esibizioni nei crocicchi: giudichiamo con la nostra cultura. Il popolo è facilmente sedotto da quell'audacia e da questa convinzione: «Sono convinti: ci credono...».

Forse ci sarebbe qualcosa da prendere per la nostra predicazione. Ma noi pensiamo specialmente alla conversazione personale: quante volte una conversazione intima, senza false vergogne, o una dichiarazione netta, senza ciarlataneria, d'un militante ad un compagno di laboratorio o ad un vicino ha sedotto l'interlocutore! Perchè allora cercare mezzi obliqui, quando sembra praticabile la linea retta, che è evidentemente la più corta?

All'epoca nostra, come dicevamo all'inizio di questi colloqui, il popolo ha bisogno d'una mistica: ma ha bisogno d'una mistica vera, forte, spirituale. Una volta ci rivolgevamo ad antichi cristiani o a fanciulli i cui genitori fossero stati cristiani. Bastava attirare a noi quei fanciulli o quella buona gente con opere che piacevano loro o che occupavano i loro momenti d'ozio. Si raggruppavano subito intorno a noi e ritrovavano le pratiche cristiane.

Oggi il popolo ignora tutto della religione, ma d'altra parte ha più che mai bisogno dell'esperienza religiosa. Non siamo più al tempo in cui la mistica del progresso e della scienza gli bastava pienamente. Le idee filosofiche del tempo penetrano il popolo assai più di quanto pensiamo, Esse sono indubbiamente materialistiche, specialmente quelle dei partiti politici che godono il suo favore; ma anche le correnti spiritualistiche sfiorano l'anima popolare. E poi, tutte le mistiche che pongono l'assedio a quest'anima finiscono per darle l'assillo di un «divenire», d'un ideale. Certe anime sono stanche delle promesse d'una felicità immediata, promesse così fallaci. Noi pensiamo perciò che la religione deve essere loro presentata come qualcosa di affatto nuovo, di zampillante: qualcosa di cui non hanno la prima idea, ma che corrisponde ad un incosciente bisogno del loro intimo. Appena viene presentata così, quelle anime si aprono.

Ma non temete che essi accettino a malincuore una pressione diretta?

Intendiamoci bene: non si tratta d'imporsi. Meno che mai gli operai permetterebbero ai preti di porre le mani su di loro, di riunirli in un reggimento. È un motivo di più per orientarci verso l'apostolato diretto. Proporre ai nostri operai, anche ai giovani, raggruppamenti che li preparino a ridiventare cristiani, che li custodiscano o li educhino, è — come dicevamo parlando delle opere — un aggiungere alla religione esigenze che essa non comporta e chiudere il cristianesimo in limiti più ristretti della Chiesa stessa. Ricordate: durante l'occupazione e il regime di Vichy, gli operai diffidavano di qualsiasi organizzazione: «non volevano farne parte». Se si proponeva loro un movimento, reagivano immediatamente. Stanchi, disgustati, diffidenti, dichiaravano: «No, non voglio saperne

La liberazione ha ricondotto i loro antichi movimenti e i loro antichi quadri. Molti vi sono rientrati. Ma più che mai essi diffidano delle organizzazioni clericali e di tutto ciò che fa somigliare la religione ad un partito. Quanto spesso è stato ripetuto che noi eravamo un partito di fronte agli altri, una organizzazione destinata ad attirare il popolo e ad asservirlo!

Bisogna dunque presentare loro un cristianesimo molto più puro, molto più spirituale, se si può parlare così, e molto più disinteressato: qualche cosa da incarnare nella loro vita, e non già incarnato in organizzazioni bell'e pronte. Presentiamo loro Cristo, Cristo e basta, in tutta la Sua bellezza, in tutta la Sua grandezza, in tutto il Suo amore, ma senza rivestirlo di nessuna uniforme: quel Cristo che essi stessi integreranno nella loro vita, che essi stessi incarneranno nell'esistenza quotidiana.

Come fare?

Non con le opere, ma con la parola, con la profonda convinzione, con la chiara esposizione del racconto evangelico. Meglio ancora: occorre per questo che un'anima si affidi ad un'altra anima, che narri di sé stessa, che esponga la sua propria esperienza, le sue proprie scoperte, che proietti la propria luce sui dubbi e sulle incertezze dell'altra.

Perciò noi preti dobbiamo cambiare abitudini. Siamo troppo pronti ad arruolare, a reclutare una adesione di più, mentre si tratta di trasformare. Il risultato è che noi «polemizziamo», che noi siamo sempre tentati di combattere gli errori di un partito, d'una morale, d'una dottrina sociale. Mostrando invece il Volto divino e la divina dottrina, faremo cadere da sé gli errori.

Abbiamo anche osservato che l'apologetica non è più opportuna. Oh! senza dubbio interessa, e potremo trovare, in tutti gli ambienti, interlocutori che discutono all'infinito. Non sarà neppure difficile vincerli a ragioni. Ma purtroppo la partita non sarà vinta; la nostra gente diffida della dialettica: ne ha sentita abbastanza per radio e abbastanza ne ha letta sui giornali da quattro anni a questa parte: ed era delle più fallaci. La gente sa che tutto si discute, che tutto si prova, e che ciò non prova niente. Si limita a dire: «Ecco uno che è più istruito e più furbo di me, che sa sempre aver ragione!»

Ma quanto ad essere convinta, è un'altra faccenda.

Noi avremo certo un po' di più la nostra gente, se mostriamo ad essa il valore sociale del cristianesimo ed anche la necessità della religione per 1a morale pubblica e personale: ma non per questo porteremo via la sua adesione. Da troppo tempo i nostri bravi francesi sono abituati a dire: «Bisognerebbe che questo cambiasse!...».

Ma non pensano a cambiare anzitutto se stessi. Noi possiamo sempre dimostrare che bisognerebbe che gli uomini fossero più cristiani, perchè il mondo andasse meglio: non per questo avranno il desiderio di diventare essi stessi cristiani.

Allora?

Bisogna presentare loro il cristianesimo con tutte le sue esigenze. Abbiamo spesso notato che i militanti che non esitavano a presentare esigenze religiose di trasformazione personale (non diciamo delle pratiche canoniche) s'imponevano. Presentiamo il Salvatore, la necessità d'una risposta personale all'eterna domanda religiosa. Da alcune decadi noi esitiamo a parlare dei fini estremi, della salvezza dell'anima. Senza dubbio non è sempre opportuno brandire i fulmini dell'inferno ed ancor meno darne macabre descrizioni; ma il problema dell'al di là può e deve essere posto a far riflettere: deve essere posto come un problema personale, che nessuno risolverà meglio dell'interessato. Non dimentichiamo che l'adesione alla religione è un'adesione personale. Nonostante tutto ciò che abbiamo detto e che ancora diremo sulla necessità d'un apostolato collettivo, d'una scossa e d'una trasformazione collettiva della massa, rimane però che, per conquistare le anime, bisogna esercitare un apostolato da anima ad anima. È appunto questo l'apostolato che noi consideriamo come l'essenziale del nostro lavoro sacerdotale.

Così pensiamo, perchè fu proprio quello degli apostoli, di san Paolo. Spessissimo, ricercando una soluzione al problema attuale, ci è bastato ritornare con lo spirito a quei primi tempi apostolici per trovare una risposta. Si è detto che san Paolo, se tornasse al mondo, si farebbe giornalista: forse... Ma non è sicuro. Noi sappiamo però che egli convertiva i guardiani della sua prigione, che sulla pubblica via conversava con chi lo avvicinava, che in casa di Priscilla e di altri radunava vicini, amici, sconosciuti, e parlava loro del Salvatore e li convertiva. Perchè non farlo ancor adesso? Se la gente accetta che la conduciamo su un terreno che è precisamente nostro e per una via così diretta, perchè dobbiamo complicare le cose? In un'epoca in cui mancano i preti (già lo dicemmo a proposito delle opere) perchè moltiplicare i nostri impegni, se il lavoro si può fare più semplicemente? Poiché infine — lo ripetiamo — noi non possiamo arrivare a far tutto. Se troviamo di che riempire le nostre giornate con un apostolato diretto, al punto da non aver neppure il tempo di soddisfare tutte le anime che ci invocano, non vediamo perchè dovremmo occupare le nostre ore con attività che non sono così direttamente sacerdotali.

Un'altra ragione ci inclina all'apostolato diretto. Certi preti «riescono» a meraviglia nel ministero perchè hanno talenti di cantori, di scenografi, d'organizzatori, e persino di sportivi o di direttori teatrali. Si chiamerà «ben dotato» un prete che avrà questi doni esteriori: eppure essi nulla hanno direttamente a che vedere col sacerdozio. Non ci si è basati su queste attitudini profane, per ammettere un se-minarista agli Ordini Sacri! Possibile che Cristo, il quale ha scelto i suoi preti, li abbia scelti per realizzazioni profane?

E a tutti quelli che non hanno tali attitudini, e che Egli ha ugualmente scelti, ricuserà un fruttuoso apostolato? Non è ingenuo pensare che Cristo, scegliendo i suoi preti e mandandoli alle folle, li mandi ad un ministero che deve essere possibile a ciascuno, per il semplice fatto che è prete, senza che il suo apostolato esiga altre condizioni oltre a quella d'essere un buon prete che vive intensamente il suo sacerdozio, e cioè pieno dell'amore di Cristo e dell'amore delle anime?

È dunque naturale cercare un apostolato per il quale basti questo amore, e noi non vogliamo sembrare né illuminati né utopisti, proclamando questo principio.

Completiamo il nostro pensiero aggiungendo che questo apostolato deve non solo essere possibile ad ogni prete, ma anche convenire ad ogni anima. Ora, voi ricorderete che, parlando delle opere, abbiamo mostrato che esse esigevano talora gusti non essenziali per essere un vero cristiano. Il messaggio evangelico si rivolge a tutte le anime di buona volontà, e basta che esse siano anime di buona volontà perchè il messaggio le conquida. Ancora una ragione in favore d'un apostolato molto libero, molto ampio, molto pieghevole, e nello stesso tempo molto personale. Se le anime si aprono a questa predicazione diretta, perchè cercare altro?

Questi sono realmente argomenti semplici; ma come vedete in una parrocchia la realizzazione di questo apostolato diretto?

II primo compito che permette di realizzarlo incombe ai preti. Vengono poi la mobilitazione di tutti i parrocchiani fedeli per quest'opera, e l'organizzazione della parrocchia in vista della conquista. Infine, si tratta di fornire agli uni e agli altri gli strumenti, i mezzi che consentano loro di condurre a buon termine il lavoro.

L'apostolato diretto è anzitutto, diciamo noi, la missione d' «ogni» prete della parrocchia, una missione che li prende in tutta la loro vita, in tutti i contatti che possono avere con le anime. Questi contatti sono di due specie: quelli che non cerchiamo e quelli che provochiamo, o — se si vuole — le visite che riceviamo e quelle che andiamo a fare. In entrambi casi sono indispensabili certe qualità umane. È vero che abbiamo detto che il sacerdozio nostro dovrebbe bastare da realizzare l'opera divina; ma non pretendiamo con questo che non vi entrino per nulla le qualità umane, e in primo luogo quelle del carattere.

Noi siamo uomini e raggiungiamo i nostri simili con la nostra umanità, come il Verbo di Dio con la sua umanità si è fatto la Via per darci accesso al Padre. Noi dobbiamo predicare il sopran-naturale, ma non metterci per traverso e far conto che il soprannaturale agisca malgrado noi, in semplice virtù dei poteri che ci sono conferiti dalla ordinazione. Bisogna che il prete in noi — o meglio, Cristo in noi — sia umanamente simpatico. C'è dunque un modo particolare nel ricevere, che deve essere messo in atto affinché il nostro ministero sia fruttuoso: un modo di salutare e di stringere la mano, di sorridere e di parlare cortesemente. Sappiamo tutto questo in teoria: ma come l'applichiamo poco in pratica!

Permettetemi citare a questo proposito un fatto personale. Io non ho memoria né per i nomi né per le fisionomie: non posso ricordarmi di aver visto la tal persona, e neanche se l’ho già veduta. È una cosa molto noiosa; molti possono risentirsi se non li riconosciamo per la strada, Per paura di sbagliare, ho preso l'abitudine di salutare quasi tutti nella mia parrocchia. Basta che uno non volti il capo dall'altra parte, perché io lo saluti, almeno con un cenno vago. Ebbene. il mio difetto mi è stato utile: la mia brava gente, invece di stupirsi che il parroco le dia il buongiorno, ne è rimasta contenta ed ormai tutti mi salutano e salutano anche gli altri preti. Un vicecurato vicino mi diceva recentemente:

— Sono più salutato in un'ora nel vostro territorio che in una settimana nel mio.

Ed un altro:

— Ho capito che mi trovavo nella vostra parrocchia, perchè tutti mi salutavano.

È poco: ma di qui ad attaccare conversazione il passo è breve.

Non diciamo con ciò di dover esser familiari o ciarlieri: questo no; ma semplici e facilmente avvicinabili, capaci di chiacchierare con tutti, di varcare una porta per una conversazione di pochi minuti, «piangendo con chi piange ed esultando con chi è nella gioia», adattando le condizioni del nostro spirito a quelle dei parrocchiani. Sentano essi che siamo con loro e dei loro!... Bisogna confessare che troppo spesso ci sentiamo a disagio nell'ambiente popolare. Anche se siamo d'origine modesta («Mio padre era un operaio» diceva un giorno un prete ad un operaio), la nostra educazione e la nostra cultura ci hanno messi al di sopra («ebbene, non si direbbe» rispose l'operaio). Non sappiamo parlare il suo linguaggio (non si tratta del gergo, naturalmente); ci troviamo meglio con chi parla il nostro. E così manchiamo di naturalezza e la gente del popolo non è spontanea con noi, considerandoci «dell'altra sponda»: evidentemente ne deriva che non abbiamo su di essa nessuna azione diretta. La prima condizione per esercitare questo apostolato diretto è dunque quella di spezzare la distanza, ponendoci deliberatamente a contatto del nostro popolo, preoccupandoci di conoscerne la vita, di entrare nelle sue difficoltà e nei suoi grattacapi. Non è per questo necessario accettare inviti a pranzo o andare a «bere un bicchierotto» con tutti (sarebbe solo necessario non accettare inviti a pranzo unicamente presso famiglie distinte), ma piuttosto fermarci volentieri nella strada, davanti ad una porta qualunque, a caso (un caso magari premeditato), secondo le circostanze.

Sono contatti assai fragili.

Ve ne sono di più seri: ad esempio quelli che possiamo avere in sagrestia, in quella sagrestia dove sfilano molte persone sconosciute, che vengono occasionalmente e goffamente per ciò che pensano sia una formalità di matrimonio o di sepoltura, un battesimo a un bambino del catechismo. La sagrestia potrebbe essere il luogo in cui ci si sente in confidenza presso qualcuno che s'interessa di noi: invece, purtroppo, spesso non è che il luogo dell'amministrazione ecclesiastica, una seconda edizione dell'ufficio municipale, coi suoi funzionari pieni di fretta, impazienti, talora tetri.

Perchè l'ufficio del signor parroco non potrebbe essere più attraente? Perchè non far sempre sedere i visitatori? Perchè non approfittare di quei passi come di preziose occasioni per conversare con persone che deploriamo di vedere così poco? Tanto più che le circostanze da cui sono condotte si prestano di solito ad uno scambio d'anime: un matrimonio, un lutto, una Prima Comunione! ma è la famiglia, la sofferenza, l’immortalità, il bambino: problemi gravissimi, che non lasciano indifferente nessuno... Quali magnifiche occasioni di parlare da prete, di aprire un'anima e di schiudere orizzonti che essa non è abituata ad intravedere! Perchè essere così stoltamente asciutti ed amministrativi, allorché si può essere umani ed apostolici?

Certo, non possiamo sempre prestar fede al pretesto che del suo abbandono ci dà chi ha rilassato la pratica religiosa: ma esiste un prete del ministero parrocchiale che almeno una volta non si sia sentito dire: «Mi sono allontanato dalla religione perchè sono stato malamente accolto da un prete»? Noi conosciamo sagrestie dove si fa veramente fatica ad andare a chiedere un permesso o a compiere un passo ufficiale. Non si andrà certamente lì a domandare un consiglio! Sappiamo di matrimoni che furono compiuti nella forma civile solo perchè un sacerdote aveva mandato aspramente a spasso i fidanzati...

Da noi, al momento della Prima Comunione — poiché non volevamo deliberatamente che si facesse questione di danaro, ma ci tenevamo ugualmente a ricevere i genitori dei fanciulli prima della cerimonia — fu spesso molto facile, parlando del bambino e della sua Comunione, insinuare che se ne approfittasse per accompagnarlo alla Sacra Mensa; molte mamme ci risposero:
— È vero: non ci avevo pensato... Ebbene, ve lo prometto.
Oppure soltanto: — Ci penserò.

La conclusione era spesso negativa; ma in certi casi era anche favorevole. Comunque, non era già qualche cosa aver intavolato la questione?

Una ragazza capita un giorno in sagrestia come una folata di vento, per le pubblicazioni del fratello. II prete l'intrattiene un poco: viene a sapere che essa si occupa delle ragazzine del suo quartiere unicamente riguardo ai divertimenti. Egli giunge facilmente ad orientare l'attività di lei e quella del suo gruppo verso la parrocchia e a farle accettare l'influenza sacerdotale.

Un'altra persona viene un giorno timidamente a far benedire una medaglia: se si vuole, è presto fatto; ma ci si accorge che essa la tira un po' per le lunghe e non parla con cuore allegro. Allora. trattenendola, si scopre una crisi d'anima ed una vita che chiede solo d'orientarsi.

Un altro giorno, viene una persona a domandare un'informazione: non si decide mai ad andarsene e alla fine mi chiede un colloquio. La faccio passare nel mio ufficio, ed essa mi dice: — Non mi riconoscete? Sono stata io, ieri l'altro, a dirvi nel confessionale che...

Se l'avessi accolta in modo asciutto, se ne sarebbe andata via disanimata forse per molto tempo: certe cose si abbozzano appena appena nel confessionale...

E quelli che passano in chiesa senza dirci nulla? e quelli che sostano davanti all'altare della Madonna, o magari più furtivamente davanti alla statua di santa Teresa del Bambino Gesù? Ci sarebbe di che occupare l'intera giornata di un prete messo a loro disposizione. Occorre discrezione, questo è certo: non è il caso d'interpellare tutti! Ma quando si vedono lacrime negli occhi o si sentono singhiozzi, è tanto indiscreto, da parte d'un parroco specialmente, fare con dolcezza certe domande?

Mi ricordo di una ragazza, che aspettava in chiesa il ritorno del fratellino dal catechismo: non so perchè, mi balenò l'idea di parlarle, d'indirizzarla al sacerdote incaricato delle giovani. Da indifferente che era a quell'epoca, costei è diventata una delle nostre principali militanti.

Sono fatti banali, scelti qua e là nei nostri ricordi; ma scegliamo a bella posta i più banali, per meglio dimostrare che il nostro ministero potrebbe esserne tutto intessuto... se lo volessimo. Ci sembra spiacevole che in una parrocchia operaia il parroco non sia mai «di guardia»: diremmo quasi che dovrebbe esservi continuamente. Impossibile, vero? come farebbe, pover'uomo? Ad ogni modo, è necessario che lo si possa vedere in qualsiasi momento e che egli stesso possa vedere chiunque e non solamente chi vuole trattare con lui in modo speciale.

Abbiamo spesso udito i nostri vescovi insistere sul ministero del prete di guardia ed abbiamo visto giovani confratelli sorridere. Come si pestano i piedi in sagrestia, nel momento in cui piacerebbe piuttosto trovarsi coi propri giovani o coi propri bambini! È naturale, senza dubbio. Eppure, se il prete di guardia sa «perdere il tempo» con buona grazia verso gli sconosciuti che vengono per una informazione, e non trattarli come un sagrestano ma come un prete, può orientare qualche vita ed operare rivolgimenti interiori.

Persuadiamoci comunque che, se non arriveremo a creare intorno al prete un'atmosfera di simpatia, tutti i nostri sforzi, liturgici o d'altro genere, e tutta la nostra ingegnosità nelle opere non vi suppliranno. La conquista non è possibile, se non è fatta da uomini amati da coloro ai quali hanno la pretesa di rivolgersi.

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