LE OPERE Dl CARITA'
E alle opere di carità, quale posto date?
A questo riguardo noi preti non possiamo dire di non essere nel nostro campo. Curvarsi sulla miseria fisica per far vibrare le fibre religiose e per provocare la fede, è una cosa che Cristo ha fatto prima di noi.
Dopo gli Apostoli, la Chiesa ha sempre considerato di propria spettanza soccorrere i poveri e curare i malati: sino alla Rivoluzione, quasi da sola ha provveduto al «servizio di sanità». Forse che lo Stato, quando ha creduto bene di prenderlo per proprio conto, è uscito dalle sue ingerenze ed ha frustrato la Chiesa? No: lo Stato, cui è affidato il bene comune temporale, deve utilizzare i mezzi possenti di cui dispone nel mondo moderno, a profitto dei bisognosi.
Ma deve per questo la Chiesa rinunciare alla missione di carità che ha svolta attraverso i secoli? No davvero: con ciascuno dei suoi membri, come con ciascuna delle istituzioni che si esigono da lei, essa deve continuare ad «amare il prossimo» non solo nell'anima, ma anche nel corpo, e venirgli in aiuto con tutti i suoi mezzi. Noi abbiamo, del resto, sull'anonimo Stato questa superiorità immensa, allorché facciamo dell'esercizio della «carità» l'esercizio della più alta virtù cristiana: che cioè diamo non soltanto denaro o cure, ma anche amore.
Quanto al principio, non abbiamo dunque nessuna difficoltà. Se si tratta d'apprezzare il «valore missionario» delle opere di carità in una «parrocchia popolare», e la parte che la parrocchia deve prendervi, faremo alcune distinzioni. In primo luogo, questa: se vogliamo che le nostre opere di carità siano missionarie, esse devono avere uno scopo di propaganda. Questo sembra contraddittorio, ed invece è perfettamente logico.
Il nostro amore per il prossimo è una testimonianza: come tale è eloquente e fa risalire, attraverso colui che esercita la carità, sino alla sorgente dell'amore che lo anima. Il cristiano che si piega sull'altrui miseria, se vuole far amare ciò che ama, non deve lasciar supporre d'utilizzare il suo gesto per un altro scopo che non sia il sollievo della miseria: deve essere semplicemente amante. Altrimenti ci si irrigidisce e ci si difende: - Vuole avermi: non mi avrà.
Ora, troppo spesso i nostri devoti collaboratori (e specialmente le collaboratrici) in opere di carità mancano di discrezione: vorrebbero far venire alla messa, condurre a contatto col prete, trascinare ai sacramenti... Non è esattamente la loro vocazione. Pensandosi «salvatori d'anime», credono di aver ragione; ma qui è meglio cercare di essere «costruttori di cristianità».
Lo scopo missionario delle nostre opere è che nella società pagana si sia costretti a rendere omaggio al fervore di carità che anima la Chiesa di Cristo. Se i destinatari possono sospettare d'essere strumenti di pressione al servizio di un'ideologia, il fine è mancato ed anzi contrastato.
Suore di carità collocate in una parrocchia possono potentemente servire alla diffusione dello spirito cristiano, se lavorano per puro amore e si fanno quindi amare, esse e tutto quel che rappresentano: se invece danno prova di zelo intempestivo, possono contrastare l'azione del clero.
D'altronde, e in rapporto a questo argomento, non sembra a noi desiderabile che il clero parrocchiale sia direttamente mescolato alle opere di carità, come organizzatore o direttore. Da una parte sono le congregazioni religiose, dall'altra i cattolici laici, tutti designati a crearle e a sostenerle. Gli Apostoli istituirono i diaconi, per compiere tale ufficio a Gerusalemme, con lo scopo di riservarsi interamente alla preghiera e alla predicazione della parola di Dio. È un precedente di cui bisogna tenere conto.
Esiste un vantaggio nel fatto che, nella Chiesa, ciascuno realizzi la propria vocazione. Se il clero tiene in mano le opere di carità, vi spende un tempo di cui ha bisogno per una missione più direttamente apostolica; e soprattutto le compromette agli occhi del popolo. Si saprà ugualmente che sono cristiane; è inutile (e pericoloso) dare loro un aspetto clericale. Nell'interesse della missione, vorremmo vedere i preti di parrocchia estranei a queste opere, semplicemente «direttori di coscienza» di coloro che se ne occupano.
Le opere di carità presentano un pericolo che è bene guardare di fronte e sul quale ritorneremo parlando del denaro. Se facciamo attenzione, la generosità stessa con cui sovveniamo alle miserie del popolo minaccia di far prendere un abbaglio alla opinione pubblica facilmente portata alla critica. Tutti sanno che il popolo ci considera una «potenza di denaro»: per chi conosce i limiti delle nostre risorse e la difficoltà con cui le ammucchiamo, c'è parecchio da ridere... Ma i conoscitori oggettivi sono poco numerosi. Gli altri, l'enorme maggioranza, che comprende in prima fila i beneficiari delle nostre opere, quando ci vedono distribuire facilmente, largamente, senza grande controllo, i soccorsi richiesti, od organizzare a loro profitto molteplici servizi, immaginano volentieri che la Chiesa disponga di fondi inesauribili, che sia una specie di Stato dalle risorse più misteriose, ma evidentemente capitalistiche: e se anche ne approfittano volentieri, la considerano però più con diffidenza che con simpatia.
La più efficace soluzione di questa difficoltà ci sembra consistere nella consegna delle opere di carità fra le mani degli interessati stessi, ossia dei cristiani della massa popolare: per esempio del «Movimento popolare delle famiglie» e dei giocisti (J.O.C.), in una reale indipendenza riguardo alla parrocchia. A permanente contatto con le miserie del popolo, essi discernono meglio di noi i suoi bisogni ed il miglior modo di far loro fronte: non possono essere sospetti di «clericalismo» e più di qualunque altro sono in grado di dare alla tradizionale opera della Carità il suo significato cristiano e missionario.
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