Se non forniscono il lievito alla pasta quanto noi lo vorremmo, le nostre opere non ci consolano con lo spettacolo della folla che le frequenta? Forse esse non formano un fior fiore di futuri capi, ma per mezzo dei fanciulli ci danno a poco a poco un bel numero. Di generazione in generazione, la folla finirà per venire a noi, se strati sempre nuovi si staccheranno dalla massa pagana per venire ad ingrossare le file cristiane. Cosa importa che noi non trasformiamo questa massa, se essa deve domani essere nostra?

Sì, l'abbiamo sentito spesso affermare: e basta certo gettare un'occhiata sulle nostre parrocchie per constatare il lavoro delle opere e dedurne che non è stato inutile. Giovani di famiglie non cristiane hanno fondato magnifici focolari cristiani: i leaders delle nostre organizzazioni cattoliche vengono in gran parte dalle nostre opere. Abbiamo fatto all'inizio di questo capitolo il bilancio dei profitti e non abbiamo motivo di smentirlo. La Chiesa di Francia è cambiata dopo la fondazione delle opere e si è considerevolmente rinforzata.
Senza voler gettare un velo su questo quadro incoraggiante, né in alcun modo oscurare l'orizzonte, vorremmo tuttavia che si fosse realisti e che, facendo il conto degli incassi si facesse anche quello delle spese. Ora, ecco per esempio che da parecchie decadi si ripete:
— Per mezzo dei fanciulli d'oggi, avremo la generazione di domani.
E da altrettante decadi sentiamo il cappellano arrivato di fresco in un'opera dichiarare:
— Io incomincio da capo.
Sarebbe allora vero che, dopo trenta o cinquanta anni di sforzi, si tratta ancora di riprendere per mezzo della nuova generazione infantile la generazione di domani? Una vera botte delle Danaidi, dunque? Naturalmente una risposta affermativa sarebbe troppo forte e scoraggiante, stando così le cose: ma bisogna nondimeno guardarla in faccia.

Un giovane socialista mi diceva qualche anno fa:
— Reverendo, voi vi rallegrate molto nel vedere un gran numero di bambini nel vostro patronato: ma questo che cosa prova? Anch'io, quando avrò dei figli, ve li manderò: sarà un sollievo per mia moglie ed io sarò sicuro che me li alleverete bene. Quando però avranno 14 anni e cominceranno a lavorare, allora appunto ve li riprenderò.

Un giorno, andando a far visita ad un sacerdote anziano, uomo di grande notorietà nel ministero parrocchiale, prima ancora che gli esponessi lo scopo della mia visita, lo intesi dire:
— Ah! caro amico, voi venite da me perchè senza dubbio fate in casa vostra la constatazione di tutti i curati: nei primi due anni in cui un nuovo pastore si trova in una parrocchia, gli effettivi aumentano e dopo la parrocchia si stagna. Tutti lo constatano!
E mi citò i più noti curati di Parigi, che, come egli diceva, hanno fatto in casa loro la medesima, penosissima esperienza.

Non dipenderà ciò dal fatto che noi incarichiamo troppo, e troppo esclusivamente, le opere di fare l'apostolato parrocchiale? e specialmente affidiamo quel compito alle opere infantili?
Evidentemente la prima ragione è che, se lavoriamo i fanciulli, non lavoriamo abbastanza le famiglie. Il bimbo non ha una personalità formata: è ancora completamente sotto l'influsso della famiglia, e per la maggior parte del tempo essendo quella influenza anticristiana, i nostri successi sono compromessi da essa. Sottoscriviamo volentieri la formula di «Cuori prodi»:
— Niente senza la famiglia: tutto con la famiglia: tutto quel che si può per mezzo della famiglia.

Avremo occasione di ritornare sull'apostolato familiare nel capitolo dell'apostolato diretto. Ci limitiamo a segnalare di sfuggita il suo legame indispensabile con l'apostolato dei bambini. Del resto, ci sono forse altre ragioni per cui le nostre opere infantili stagnano o intristiscono in un ambiente operaio. Le ragioni sembrerebbero sottili a certi confratelli: a noi non paiono trascurabili. Le nostre opere, invece d'offrire semplicemente ai loro membri una facilità per il bene, invece di esercitare su di essi un'attrazione, presentano loro esigenze supplementari. Comportano regolamenti, concorsi; esigono presenze che non sono essenziali per il cristianesimo: «si affidano», come si suol dire. Risultato: solo un piccolo numero accetta di farne parte. Le altre rimangono fuori: e siccome la vita parrocchiale è fondata sulle opere, restano, se non nell'intenzione, almeno di fatto, fuori dalla vita parrocchiale.

Eppure, ci sono opere per tutti i gusti e per tutte le attitudini...

Ne siamo proprio sicuri? E poi, il solo gusto necessario non deve essere quello di rimanere cristiano? Non è necessario alla qualità di cristiano andare al campeggio, salire sul palcoscenico, e nemmeno discutere questioni scientifiche in circoli di studio... E quelli che vogliono restare nella loro famiglia, quelli a cui basta come distrazione una famiglia numerosa e cristiana, quelli che chiedono solo di poter fare essi stessi dei cristiani? Che cosa abbiamo per loro? Abbiamo il nostro sacerdozio, abbiamo la chiesa, ed essi hanno il diritto di esigere tutto. Ma per il resto? Non corriamo il pericolo di trattare da parenti poveri, da cattolici di seconda linea, quelli che non vogliono far parte di nessuna opera?

Trasmettendomi la lista del patronato di cui prendevo l'incarico, il mio predecessore m'indicava gli ultimi nomi, dicendo:
— Questi non sono interessanti: sono quelli che non vogliono far parte di nessuna opera.
C'era fra costoro un certo numero di giovani egoisti, ma molti altri erano invece cristiani al 100%, e la loro vita cristiana ben compresa e ben praticata era sufficiente per essi. Adesso sono ottimi militanti cattolici.
Un parroco mi diceva:
— Nella mia parrocchia ho due patronati. Al momento dell'iscrizione al catechismo, le bambine vengono affidate all'uno o all'altro, secondo la scelta dei parenti, e vengono così poste sotto la tutela di esso. Dopo la Prima Comunione, ogni bimba ha in chiesa la «sua fila» titolare, dove è facile controllare la perseveranza. Quando disgraziatamente si presenta una nuova bambina, tutte vanno a gara per attirarla a sé. Se è d'una famiglia che non vuole avere i figli iscritti al patronato, quella poveretta non sa più dove mettersi per sfuggire a quella caccia, e non osa più venire.

Naturalmente non è così in tutte le parrocchie; rimane però il fatto che spesso noi accordiamo alle opere un posto tale nella nostra organizzazione, da dimenticare quelli e quelle che non ne fanno parte. Lo zelo con cui ci si dà ad esse, la lodevole ambizione di vedere queste opere perseverare ed accrescersi di tutti gli effettivi possibili, arrischiano di renderci ingiusti verso coloro che non vogliono farne parte.

Non è un bello spettacolo questa abnegazione dei nostri giovani preti, che non risparmiano né tempo né fatica per le opere? Non è un vantaggio offrire per mezzo di esse ai giovani sacerdoti un campo d'azione in cui possano profondere la loro attività?

L'attività e l'abnegazione dei nostri giovani preti sono ammirevoli. I nostri vicecurati vivono solo per le loro opere e noi ci guardiamo bene dal gettare una doccia fredda su questo zelo e su questa abnegazione. È sempre tanto brutto frenare l'entusiasmo e correre il rischio di scoraggiare qualche iniziativa! Ci rimprovereremmo di addolorare chiunque e soprattutto d'aver l'aria di sminuire il lavoro compiuto da tanti giovani confratelli. Molti altri che non sono più giovani e che hanno speso nelle opere gli anni più belli del loro sacerdozio ci serberebbero a ragione. un po' di rancore, se dovesse sembrare che noi negassimo tutto il bene che essi hanno fatto, o meglio quello che hanno fatto le loro opere.
Per dire tutto quel che pensiamo, aggiungiamo che ci è capitato talvolta, parlando davanti a preti di questo problema delle opere, di sentire qualche giovane confratello approvarci troppo in fretta. Costoro approfittavano delle nostre spiegazioni per trionfare un po' rumorosamente contro i loro parroci che, senza dubbio, dovevano insistere per il mantenimento delle opere. Allora noi ricordavamo le battaglie che noi stessi, da giovani, avevamo sostenute in altra epoca, in senso inverso, contro i nostri curati che volevano fare a meno dei patronati, degli scouts, ecc... Non bisogna pensare di sopprimere le opere con tanta facilità.
Nell'apostolato, più che in ogni altra cosa, non si deve distruggere niente che non si sia sicuri di sostituire: e se si curassero un po' meno le opere infantili, dovrebbe essere per dedicarsi effettivamente all'apostolato degli adulti. Del resto, su questo capitolo come sugli altri, il parroco, alla fin fine, ha diritto e grazia e possibilità di troncare la questione.
Ciò detto, e prese queste precauzioni, ci chiediamo se le opere non rappresentino alle volte un pericolo per i nostri giovani sacerdoti. Questo campo d'azione non minaccia di limitare le loro prospettive? Chi si affida loro generalmente? Bambini e giovani. I bambini... sempre i bambini! Preservare bambini, coltivare bambini — e ragazzi e ragazze; creature «sotto i vent'anni» (e siamo ancora di manica larga, perchè la maggioranza è «sotto i quindici anni») — non sono il campo principale della loro attività? Quanti parrocchiani, ed anche quanti indifferenti, sono giunti a considerare i giovani sacerdoti come esclusivamente riservati al patronato, agli scouts, ecc!... Nel frattempo, gli adulti restano nel loro paganesimo. Quando ce ne occuperemo? «Non possiamo fare tutto»: ecco la constatazione (facile!) che guida il corso delle nostre riflessioni.
Ora, quando il parroco ha assicurato l'amministrazione generale della parrocchia ed i viceparroci hanno assicurato il buon andamento delle loro opere giovanili, quando tutti hanno visitato i malati (a meno che il prete incaricato dei ragazzi non ne sia dispensato), udito le confessioni, assistito alle cerimonie di sepoltura e fatto dei battesimi, quanto tempo rimarrà ancora per la conquista degli adulti? Si dice che, senza le opere, molti giovani sarebbero abbandonati.
Ma con questo regime universale delle opere si verifica che il parroco si occupa della parrocchia e che i viceparroci se ne disinteressano, o praticamente non hanno il tempo d'occuparsi del suo andamento generale. Di qui eterni conflitti, di cui sono penose occasioni le presenze alle messe solenni, agli uffici funebri e il servizio delle questue.

Le opere accaparrano non solo il tempo, ma anche le preoccupazioni, l'interesse. È notevole come certi seminaristi, quando pensano al loro futuro apostolato, si preoccupino quasi esclusivamente di quello che faranno intorno ai bambini. E quando un nuovo vicecurato arriva in una parrocchia, ha già il suo piano tracciato per i fanciulli e per i giovani. Ma gli adulti? Nessun piano, per essi. Sembra, da circa mezzo secolo, che i preti si siano consolati della perdita d'un regno con la conquista di un altro: non potendo avere gli uomini, ci si è attaccati a raggruppare le donne: non potendo avere gli adulti, si sono cercati i giovani: e, dato che anche i giovani difficilmente si raggiungono, ci si è rifatti sui bambini... Essi offrono un dominio quasi sicuro: è un regno garantito. Il male è che, se questo mondo infantile può costituire un regno per noi, non è altrettanto di fronte alla necessità di estendere il regno di Dio.
Non ci sarebbe modo d'occuparsi sacerdotalmente e con intelligenza dei bambini, senza trascurare per questo gli adulti? Crediamo sia bene richiamare l'attenzione su questo pericolo.

Ci avete messo in guardia contro una tentazione alla facilità di sopprimere le opere: non lo è anche il voler solo pensare ad esse?

Crediamo di sì, e vorremmo soggiungere che essa si complica talora anche di un'altra tentazione: quella che Péguy chiamerebbe del «tutto fatto», in contrapposto al «da farsi». Le opere danno al prete il gusto di ciò che è istituzionale, fondato, situato. Si ha indubbiamente l'assillo d'ampliare la propria, opera, di renderla viva, radiosa; ma ci si riposa su un programma già tracciato di riunioni; non c'è che da applicare il metodo imparato, il principio ricevuto, si hanno ascoltatori noti e abituati. Si finisce per chiudersi nel loro cerchio. Non vi si perde il senso dell' «al di là», degli «altri» da conquistare? Non ci si conforta pensando che, mettendo tutto il cuore nel rendere viva l'opera, si è in regola con la missione di conquista? Non è pericoloso che ciascuno si racchiuda in un regno ristretto, a danno del Regno di Dio, che bisognerebbe spingere sempre più avanti? Non per nulla un confratello, la sera di una riunione in cui constatavamo insieme i molteplici obblighi del le nostre giornate, ci lanciò questa frecciata:
— Eh, cari miei! le opere ci hanno fatto perdere il senso dell'apostolato.
Questo è vero specialmente per l’apostolato presso gli adulti: avendo cominciato con quello dei bambini e dedicandovisi fino dai primi anni di sacerdozio, ci sono dei preti che ne portano l'impronta per tutta la vita.
Fortunatamente, non tutti arrivano a quel punto, e si potrebbero citare cento esempi di preti che sanno occuparsi contemporaneamente dei bambini e degli adulti, che nel loro ministero presso l'infanzia hanno preso una sicurezza ed uno zelo che hanno poi trasportati nella loro azione sugli adulti. Ma com'è più facile rivolgersi a persone conosciute, presiedere una riunione, che andare ad affrontare per la strada, o in casa loro, uomini la cui accoglienza minaccia di essere poco invitante!... Così naturalmente si produce un'abitudine ed un apostolato psicologicamente più comodo, e quando bisogna affrontarne un altro, si esita e si cercano mille buone ragioni. Certi preti hanno constatato che in caserma non esitavano a parlare ai compagni e che nulla impediva loro di esercitare un'influenza cristiana; invece, tornati in parrocchia, si sono sentiti impacciati di fronte all'adulto, non sanno come avvicinarlo, ne hanno come paura e mancano a suo riguardo del mordente necessario.

In fin dei conti, non è permesso deplorare che, in un'epoca in cui le vocazioni sono rare e i preti così poco numerosi, essi siano costretti a compiti che loro non spettano?

Intendete parlare delle faccende materiali che le opere esigono? Siamo d'accordo con voi. Bisognerebbe anzitutto cambiare certi apprezzamenti sacerdotali. Le vere qualità del prete moderno sono d'essere apostolo e di irradiare intensamente il suo sacerdozio. Non dovrebbe la cura delle opere falsare la scala dei valori. Le faccende materiali rischiano anche di compromettere la vita interiore e la cultura intellettuale dei giovani sacerdoti.
Per buona sorte, da qualche anno si è presa coscienza del pericolo e si sono messi i nuovi sacerdoti in guardia contro le opere. Ma quanti di essi non sanno farsi aiutare e si credono in obbligo di occuparsi di tutto! E d'altronde, bisogna confessare che, malgrado l'abnegazione dei laici, ed anche supponendo che i direttori d'opere trovino sempre, quanti loro occorrono ed ogni volta che ne abbiano necessità, il prete avrà ancora un'infinità di preoccupazioni materiali, che l'accaparreranno. Andate a fare un'ispezione nella stanza d'un sacerdote direttore d'opere e vedrete quale materiale da bazar gli tocca regolare. Domandate conto dell'impiego del tempo a quello che sembra più libero dagli affari temporali, e vedrete il posto enorme che l'opera occupa nella sua vita, e vi accorgerete di come essa oltrepassi i limiti della sua azione propriamente sacerdotale. È ammissibile che per ogni generazione di preti sia così e che tante attività sacerdotali siano specializzate in un senso così ristretto?

Come concludete dunque, terminando queste osservazioni sulle opere d'educazione?

La nostra conclusione — ci si perdoni, l'abbiamo detto e ripetuto in tutto questo capitolo — è di non concludere affatto. Tocca a ciascuno nella lotta vedere il proprio campo, quello che gli è assegnato, e i mezzi di cui dispone, tenendo conto degli elementi psicologici del suo essere e degli esseri che lo circondano.
È fuori di dubbio che le opere sono ancora un mezzo necessario d'apostolato, e forse uno dei mezzi principali in molte parrocchie. Non è meno vero che esse non sempre sono esistite nella Chiesa, specialmente come mezzo d'apostolato parrocchiale. Per canto nostro, pensiamo che lo stadio delle opere potrebbe essere sorpassato, data l'evoluzione sociale ed anche l'evoluzione psicologica del comportamento religioso nelle nostre parrocchie della «banlieue». Abbiamo detto e torneremo a dire in seguito soltanto quel che facciamo nel nostro posto di Colombes. Non abbiamo, del resto, cessato di cercare, di cambiare e d'adattare. Solo l'avvenire può mostrare se abbiamo ragione e dettare una linea di condotta, a noi ed ai nostri confratelli.

Non si può dunque concludere che voi siete contrario alle opere educative e predicate la loro soppressione?

Assolutamente no. Certo, se un parroco troverà nel proprio cuore abbastanza audacia per sostituire nella sua parrocchia il lavoro delle opere con un intenso apostolato diretto, per sbarazzare completamente i suoi coadiutori dalle gerenze d'opere, in favore della grande opera della conquista, lo guarderemo con enorme interesse. Non è sicuro che i risultati di un tale tentativo superino molto presto quelli che si ottengono abitualmente, e che la sua esperienza trascini altri preti nel suo solco; ma questa iniziativa sarebbe un tale colpo d'audacia, che noi non osiamo né consigliarlo né intraprenderlo. Quando si pensa che sono le anime che rischiano di pagare le spese delle esperienze e delle innovazioni, tale pensiero rende molto prudenti.
Se esaminiamo la storia delle opere da mezzo secolo in giù, c'è un fatto che ci ispira fiducia, e un altro che suscita in noi inquietudine. Il primo è che la concezione delle opere segna un netto progresso verso lo spirituale: dopo lo scatenamento delle società ginnastiche, sportive, e via dicendo, ci si è orientati verso formule più nettamente formatrici, di cui lo scoutismo è il più bel campione: dopo il patronato concepito come un mezzo di «tenere i bambini» divertendoli, la «Crociata Eucaristica» e i «Cuori prodi» sono venuti fuori coi loro metodi d'educazione al sacrificio e all'apostolato: dopo i vaghi circoli d'amicizia si è passati a quello di studio: e i movimenti specializzati dell'Azione Cattolica, che sono diversi dalle opere, hanno dato a tutte le opere una loro caratteristica propria. Ma d'altronde noi constatiamo una tendenza al conformismo, alla degenerazione (generale o locale, secondo i casi) di opere molto ben iniziate nel senso apostolico, le quali intristiscono nell'amministrazione o nella pratica.
Comunque, è certo che s'impone un rinnovamento. La storia delle opere non giustifica forse il ben noto pensiero di Péguy: «Una congregazione nasce dalla mistica e finisce nella politica»? Sappiamo quel che Péguy ha celato sotto queste parole: la mistica consiste in quel gran pensiero, in quell'ardore, in quella generosa ambizione che si trovano alla partenza: la politica è l'amministrazione, l'istituzionalismo, il funzionalismo, la cosa fatta, «bell'e fatta», che s'installa, si organizza, si conserva... e stagna.
Tale è la miserabile condizione di tutto ciò che vive e che quindi invecchia: neppure la Chiesa vi si sottrae. Ma nella Chiesa lo Spirito Santo non invecchia: conserva intatto il primo ardore della Pentecoste. E noi dobbiamo, senza debolezza, esser animati da questo Spirito di rinnovamento, per non attaccarci alla «figura di questo mondo che passa», ma per ripensare senza tregua i problemi e per mantenere giovane la nostra azione.