LE OPERE EDUCATIVE

Tanto basta per le opere che pretendono solo d'attirare i loro membri occupandoli in ricreazioni. Ce ne sono altre che vogliono essere educative. Avete delle riserve da fare a loro riguardo?

Come prima osservazione in merito, potremmo dire che un serio lavoro di ricerche, di sforzi, ha ottenuto da più di cinquant'anni un continuo progresso nei metodi. Certe opere che volevano essere apostoliche attirando unicamente col giuoco, sono diventate opere veramente educative. Uomini di grande valore si sono curvati sul problema dell'infanzia e non cessano di sceverare le leggi della sana educazione. Di fronte agli sforzi compiuti e alla cura laboriosa che ci si è dati e che ancora ci si dà, non potremmo non restare in ammirazione: e se abbiamo qualche riserva da fare, sarà sempre con tale sentimento ammirativo per lo zelo che le ha suscitate e per il bene reale che queste opere compiono. Ma in vista di quel che riguarda noi, nella prospettiva di questo lavoro che consiste nell'esaminare i mezzi per rendere missionarie le nostre parrocchie, ci domanderemo se quelle opere hanno un'influenza di apostolato sulla massa operaia: non già, notatelo bene, se esse accaparrano elementi in questa massa, ma se la incidono, se la lavorano, se la modellano. Esse potrebbero risponderci in due modi; le une ci direbbero: «Noi formiamo dei capi che agiscono sulle masse e le trasformano».
Altre invece affermerebbero: «Noi abbiamo veramente una diretta influenza di trasformazione su una parte sempre più importante della massa

Per ben circoscrivere il dibattito, noi ricordiamo che in questo momento parliamo delle opere che si occupano di bambini e di giovani. Domandiamoci dunque:

1) Queste opere danno alla classe operaia i capi di cui essa ha bisogno?

2) Le nostre opere raggiungono gli strati profondi e larghi della massa?

Io penso che per il primo punto non vi siano difficoltà. Le nostre opere di formazione hanno appunto lo scopo di isolare gli elementi scelti, affinché trascinino la massa.

Certo: esse hanno questo scopo; hanno questa volontà ferma. Quante volte abbiamo ammirato in coloro che le dirigono, che le «pensano» - come si suole dire - questa cura, questa preoccupazione! Quante volte li abbiamo visti esaminare il problema! (1) Quanti interrogano gli specialisti dell'apostolato popolare! Non si tratta dunque d'esaminare le intenzioni: sappiamo troppo quel che sono; ma dobbiamo pur domandarci se il risultato è raggiunto... L'intenzione, purtroppo, non basta (lo dicevamo poco fa) nelle nostre opere, come in strategia militare. Vorremmo dunque trattare con estrema delicatezza questi argomenti; non vorremmo offendere nessuno, nè scoraggiare nessuna buona volontà. Diciamo questo non per partito preso. Se le nostre espressioni sono talora severe, se le nostre constatazioni sembrano dure, si voglia scusare la nostra inabilità.

La prima questione che poniamo è quella di sapere se le opere impastano il lievito che farà poi fermentare tutta la pasta. Si tratta ben di questo, non è vero? Se spendiamo tanto tempo, se dedichiamo tanti sforzi alle nostre opere, bisogna che il rendimento sia in proporzione: non lo sarà, se coloro che noi formiamo non diventeranno seminatori, capi, trascinatori, moltiplicatori.

La condizione essenziale perchè il lievito serva a qualche cosa, è che esso sia mescolato con la pasta e vi si incorpori per farla sollevare. Ora, quando gettiamo uno sguardo sulla massa e cerchiamo di vedere quali sono i capi che essa preferisce seguire, vediamo chiaramente che essa va verso coloro che sanno trascinarla, piuttosto che verso quelli che pretendono di comandarla. Parliamo, s'intende, della massa francese, del popolo francese, del popolo dei nostri sobborghi parigini o industriali. I nostri operai accettano che dal loro ambiente sorgano dei capi, ma rifiutano i capi che si impongono loro per via d'autorità. Sia che lo deploriamo, sia che ne godiamo, questo è un fatto. Guardate nelle officine coloro che hanno influenza e che talora fanno pesare una vera dittatura sui compagni: sono simili ad essi sotto ogni rapporto, propongono, ma non impongono.

Partendo da questa prima constatazione, siamo costretti a confessare che certe opere cristiane preparano piuttosto dei caporioni che dei trascinatori. Quando i nostri giovani sono stati abituati sino dall'infanzia alle file ben fatte, ai comandi ben recisi, ritornando nel loro ambiente soffrono poi di quella che credono una mancanza d'ordine. Quanti giovani sono stati mandati a spasso dai loro colleghi di laboratorio, perchè non sapevano trovare la delicatezza di manovra che esigeva il loro apostolato! Ritorneremo su questo argomento a proposito del problema della cultura; ma ci teniamo sin d'ora a far presente una delle ragioni per cui le nostre opere non preparano capi adatti a guidare la classe popolare.

E d'altra parte, non è un altro errore voler prematuramente trarre fuori il fior fiore, come facciamo noi? Certe opere scelgono ragazzi di dodici anni e li coltivano come destinati a formare l'élite. Non occorre avere una lunga esperienza della gioventù, per rendersi conto che tali speranze sono spesso deluse. Sappiamo forse quel che diventerà a diciotto o vent'anni il ragazzo di dodici? Quante volte abbiamo visto rovinarsi «e disseccarsi» i nostri «bravi bambini» ben dotati, docili, pieni di buone qualità! E viceversa, quanti insopportabili fanciulli, per i quali temevamo il peggio, sono diventati meravigliosi trascinatori! È un fatto corrente, così generale da non poter essere considerato un'eccezione... Il fior fiore non si taglia in anticipo, non si prepara a parte, non si tira fuori ad ogni momento: lo si fa salire gradatamente, nella collettività che lo produce. Il fior fiore degli adolescenti si trova fra gli adolescenti, quello dei giovani tra i giovani, quello dei lavoratori in mezzo ai lavoratori: per farlo crescere a parte, lo si mette in una serra calda... ed è evidentissimo che le piante da serra temono le intemperie...

Questo è un paragone: credete davvero che la realtà gli corrisponda?

Sì: qui non ci sono che paragoni o vedute intellettuali. Basta guardare i giovani e la maggior parte degli adulti che abbiamo formati, per vedere che sono separati dalla massa, non solo diversi a causa dei loro sentimenti cristiani, ma staccati da essa per i loro gusti, per le loro reazioni, per il modo d'occupare le ore d'ozio. Si direbbe che molti formano una casta a parte, una specie di casta semi-ecclesiastica, che ha le reazioni a noi proprie, che gode di stare nella nostra orbita, che prende il nostro modo di pensare. ma che non ha nome in nessuna lingua e non fa veramente parte di nessuna classe sociale. Ogni giorno vediamo la verità che don Godin segnala in «Francia, paese di missione»: i nostri giovani sono bravi ragazzi, ma non hanno più nessun mordente sulla massa.

Al principio di questo libro abbiamo alluso alla  inchiesta «Il cristianesimo ha svigorito, devirilizzato l'uomo?». Quanto a noi, risponderemo che il cristianesimo di per sé stesso non può devirilizzare i suoi fedeli, ma che molte delle nostre opere l'hanno fatto, pretendendo di formare una classe scelta, dando a: loro membri non so quale andamento di docilità, di conformismo. Guardate le ragazze che sono state formate dalle nostre opere: si riconoscerebbero in mezzo a tutte le compagne di lavoro o di quartiere. È indubbiamente una cosa normale che esse, le cristiane, si distinguano dalle altre: ci sono cose che esse non possono dire, atteggiamenti che esse non possono prendere: deve sprigionarsi da esse un irraggiamento di sorriso, di bontà, di carità, che manifesti la presenza di Cristo. Ma perchè così spesso esse hanno preziosità, leziosaggini che le fanno assomigliare a ninnoli fabbricati nelle nostre opere? perchè atteggiamenti tanto complicati da far sì che esse si distinguano totalmente su quelle che le circondano? perchè hanno perduto così spesso la loro naturalezza? Noi abbiamo persino visto opere che non si accontentavano di separarle dall'ambiente popolare con la formazione che davano loro, ma che lo facevano deliberatamente e per partito preso.

Ero giovane vicecurato incaricato d'un patronato di ragazze. Parlando di un'ottima ragazza che lavorava con la sorella in officina, la suora direttrice mi annuncia che si occuperà di lei: le farà dare lezioni di stenografia e le troverà un impiego. E mi spiega:  È una giovane troppo dabbene: non bisogna lasciarla nel suo ambiente.

Quell'ambiente era l'officina, dove, a fianco della sorella meno fervente, essa era il solo testimonio di Cristo, il solo elemento d'azione cattolica... Ciò che era stato detto fu fatto; ma in capo a qualche mese, la sorella maggiore non fu più vista al patronato, e ben presto la sorella minore non volle più saperne di lei e della famiglia. Bel risultato, questo taglio sociale!

Se si volessero esaminare i regolamenti, la vita, le attività della maggioranza dei nostri giovani, e soprattutto nelle nostre opere d'infanzia, si vedrebbe che chi le ha pensate, le ha inconsciamente fatte per la borghesia. I diversi progetti di prove, di esami, sono dei saggi di vernice o di qualità o di cultura borghese: in seguito a ciò, non dobbiamo stupirci se i giovani che escono dalle nostre opere non vogliono più avere contatti con gli operai, dai quali tutto li separa.

Una ragazza di 16 anni sta per iniziare il suo lavoro: è di un quartiere popolare e suo padre è comunista: senza il patronato non avrebbe certo perseverato. È molto buona ed intelligente. L'interrogo sulle sue prime impressioni d'impiegata;
— Ebbene? vi piace il vostro lavoro?
— Oh! è duro, e la giornata non finisce mai.
— Scommetto che voi pensate al patronato, assai più che al lavoro.
— Oh! quanto a questo, sì... non vedo mai l'ora che finisca la settimana...
Cerco di spiegarle la grandezza del lavoro considerato dal lato cristiano, ma è tempo perso...
— E adesso, andate alla I.O.C.?
— Sì, ma non m'interessa: preferisco il patronato, con le sue attività.
Spiego la differenza che corre fra i due gruppi e la necessità di salvare tante anime che si perdono nella classe operaia...
— Sì, reverendo: ma capirete che a ragazze come noi — (e voi ricordate certo il suo ambiente) — non può piacere la I.O.C., dove ci sono anche delle operaie.

Cerchiamo di capire tutto ciò che vi è di più grave in queste tre dichiarazioni:

  • disamore al lavoro;
  • disamore all'apostolato;
  • disamore alla propria classe.

Ho citato questo esempio, perchè tipico: assai raramente le cose sono espresse e raccolte così bene in poche frasi. Eppure, ho riferito testualmente la conversazione e ripeto che si tratta di un buon soggetto, intelligente e personale... Bisogna però aver fatto alcuni anni di Azione Cattolica in mezzo alla massa, aver udito parlare veri militanti e vere militanti, per capire la differenza fra loro e i nostri giovani usciti dalle opere. Essa è tale, che le constatazioni da noi testé fatte sono diventate per i cappellani d'Azione Cattolica banali e quotidiane: è un fatto d'esperienza, un punto acquistato. Ci meravigliamo che certi parroci e certi vicecurati non lo vedano: si direbbe che sono annegati nell'ambiente parrocchiale, nell'ambiente delle loro opere, al punto che quell'ambiente drizza davanti ai loro occhi un muro che impedisce loro di vedere il mondo che c'è di là, di capire che è tutto diverso.

Perchè dunque le opere, se sono ottimi vivai per l'ambiente parrocchiale, buone fornitrici per il culto domenicale, non formano un numero maggiore di militanti?

Notiamo anzitutto che vi sono magnifiche eccezioni. Tutti conosciamo dei giovani formati dalle nostre opere, che sono in seguito diventati ottimi allenatori della J.O.C.; diciamo anche che essi danno per il futuro una garanzia maggiore degli altri, per le solide abitudini che hanno contratte. Ma noi confessiamo che sono eccezioni. Ci si dirà che le nostre sezioni giociste hanno avuto la fortuna d'essere reclutate nelle opere parrocchiali... Ahimè! si potrebbe rispondere che alcune ne muoiono... Se tante sezioni non progrediscono, non comprendono i problemi operai, non attaccano la massa del quartiere e se la loro attività si riassume in quattro ciance intorno al vicecurato la colpa non deve essere imputata al loro reclutamento? Nove volte su dieci, si tratta di bravi giovani che non conoscono più il loro quartiere e che inconsciamente hanno paura della massa… Non sanno più come ritornarvi e sono incapaci di trovare le vie giuste che conducono ad essa. Quando vogliono assumere un atteggiamento operaio, usare un linguaggio operaio, non ne prendono che la caricatura, e spesso a proprio grave pericolo, perchè non vi sono preparati. Scoprite, per esempio, un buon militante in mezzo ad una combriccola di quartiere: la trasformerà; se invece i nostri giovani cercano d'organizzare divertimenti misti, la sezione vi si perderà, perchè non è pronta a ciò. Sono — ripetiamolo — pianticelle da serra.

Abbiamo anche constatato che i nostri giovani delle «opere» non hanno il senso della conquista, della massa, nella sua vera essenza. Non sono tormentati dalla passione di dover far conoscere Cristo, di dover cambiare la massa. Perchè? Qui più che altrove presentiamo la difficoltà senza pretendere di giungere ad una conclusione. Vedremo infatti che per le nostre opere si tratta se così possiamo esprimerci, dei «difetti delle loro qualità»: e cioè d'una conseguenza quasi inevitabile della loro influenza su coloro che esse formano e del bene che fanno loro. Bisogna pertanto far finta di non vedere questa difficoltà? Noi pensiamo che sarebbe necessario almeno segnalarla.

Se i giovani che escono dalle nostre opere educative non hanno il senso della conquista, l'ansia della conquista, ciò dipende, a parer nostro, da due ragioni derivanti dal lavoro di formazione operato sopra di essi. Crediamo che da un lato essi sono troppo «abituati» (nel senso peggiorativo che Péguy dà a questa parola) alle verità religiose. Bisogna certamente rallegrarsi per il fatto che essi siano stati sempre fedeli ai loro doveri, che abbiano sempre pregato sin dall'infanzia, e che da allora si comunichino e vivano da buoni cristiani. Rimane pur tuttavia vero che, a causa dell'abitudine, le verità e le pratiche religiose hanno perduto per essi una parte della loro grandezza e della loro urgenza. Se uno dei loro compagni di piena massa si convertirà, capirà meglio di loro ciò che ha scoperto, ciò che prima gli mancava. Invece i nostri giovani d'opere non hanno sofferto nessun vuoto interiore e non hanno scoperto niente; come, del resto, si sono creati (o piuttosto siamo stati noi a crearglielo) un ambiente artificiale, dove tutti la pensano come loro: non hanno più sufficiente coscienza d'una missione da compiere, di un'urgente missione che chiama: non sono inquieti, nessun turbamento agita il loro spirito. Non avendo trovato da sé la strada da far conoscere agli altri, si sentono maldestri, inadatti all'apostolato: non sanno da che parte incominciare.

La cosa saltava agli occhi in uno dei recenti circoli di studio della sezione giocista. Le militanti rendevano conto del proprio lavoro, compiuto nei piccoli gruppi organizzati in seno ad ogni quartiere ed affidato ad esse. Qualcuna, formata dalle opere, si lagnava della sua timidezza e domandava alle altre:
— Ma come parlate di Cristo, voi? Che cosa dite?
E le altre, pronte:
— Ma, tutto viene da sé, spontaneamente!
Queste ultime, per la maggior parte convertite, non risolvevano la questione: appunto perchè essa non ha nulla a che fare con direttive di formule, ma si risolve con la spontaneità. E mentre alcune militanti di piena massa ci raccontavano delle loro riunioni o della loro attività, disordinatamente, a casaccio, e ci dimostravano come, parlando degli ultimi avvenimenti del quartiere, fossero giunte a parlare di Cristo e a giustificare il loro atteggiamento di cristiane, le altre ci scongiuravano di dar loro un piano di riunioni, uno schema di discussioni... Mi pare ancora di sentire X, dirigente d'una nostra sezione infantile, dirmi che non sapeva tirare avanti una discussione dove non avesse l'impressione di cominciare ad un momento prestabilito e di dibattere una questione già prevista in anticipo...

Altra ragione ancora più profonda, per la quale i nostri giovani sono privi della preoccupazione della conquista: nelle nostre opere, noi diamo loro soprattutto la preoccupazione della perfezione personale. Noi diciamo loro:
— Preoccupatevi della vostra anima e della sua salvezza: tutto deve esserle sacrificato. Non frequentate chi potrebbe corrompervi: ci sono dei piaceri che dovete interdirvi, dei luoghi dove non dovete andare, delle persone con le quali non dovete stringere amicizia... Dovrete rispondere dei vostri sforzi personali... Solo i vostri meriti, con la grazia di Dio, vi salveranno.

Diamo loro un'ansia molto forte della loro perfezione personale e persino certi saggi spirituali da realizzare. Nei nostri colloqui pubblici o privati, nelle formule di preghiera che proponiamo loro, trattiamo specialmente delle loro colpe o del loro progresso personale. Nei circoli di studio si discute soprattutto di ciò che li arricchisce personalmente o di ciò che è loro dannoso. Noi li ripieghiamo quasi su sé stessi. Tanto nelle loro distrazioni quanto per la loro perfezione, è il personale beneficio quello che noi facciamo intravvedere...

Come stupirci allora, se i nostri discepoli non posseggono in altissimo grado l'assillo della massa da conquistare? È già molto che, di fronte ad essa, non abbiamo come una ripulsa per la loro conservazione, un istinto di protezione!... Aggiungete la tendenza naturale in ogni uomo alla soluzione facile, che in questo caso è quella d'interessarsi del gruppo a cui si appartiene, trascurandone gli altri — e purtroppo essi sono diventati «gli altri» — cioè quelli che sono al difuori, quelli con cui non si sarebbe capaci di avere contatto, quelli che bisogna tutt'al più sopportare e che non si ha l'affanno di condurre a Cristo...

Abbiamo fatto il seguente raffronto: in un determinato ambiente di lavoro vi sono degli scouts e dei giocisti. I primi, se soffrono dei sarcasmi, degli scherni dei compagni di laboratorio, della volgarità dell'ambiente, si consolano pensando: «Ho i miei fratelli scouts... domenica prossima uscirò con la mia squadra...». Dicano pure i colleghi quel che vogliono: essi sono lontani col pensiero, in attesa di potersene allontanare in realtà. I giocisti non evadono con la mente: sanno che la loro missione è lì, prima d'essere nel loro circolo di studi, e se hanno capito bene la loro parte, la loro riunione sarà tutta penetrata ed arricchita dalle scoperte fatte in laboratorio; nella riunione e nel loro spirito non si tratterà più che dei mezzi da usare per trasformare l'ambiente e delle risposte da dare, delle iniziative da proporre per tale scopo.

Non diciamo certo che gli scouts e i membri dei patronati non abbiano nessuna preoccupazione d'apostolato: ne abbiamo anzi conosciuti parecchi veramente apostoli; ma quell'apostolato era sempre individuale. Loro cura era d'isolare colui che pareva loro migliore, più facile da influenzare, e per arrivare a ciò non trovavano un mezzo migliore che condurlo al patronato. Non immaginavano che cosa potesse essere un'influenza che non si realizzasse immediatamente in atti religiosi.

Per le nostre opere d'educazione e di giovani, abbiamo bisogno d'ausiliari, giovanotti o signorine che scegliamo fra i più devoti e più dotati anziani, e ai quali chiediamo di collaborare al nostro lavoro, di curare i fratelli o le sorelle più giovani. Sarebbe difficile per noi fare a meno del loro concorso. Molti confratelli vedono in questo un mezzo eccellente per completare l'educazione di coloro che chiamiamo così ad aiutarci. Non s'impara spesso meglio insegnando che studiando: non si beneficia più a dare che a ricevere? È certo: ma noi vorremmo segnalare un pericolo. I nostri ausiliari diventano «dirigenti» spesso pieni di abnegazione; cessano pertanto d'essere dei «militanti».

Spieghiamoci. L'istinto naturale porta colui o colei che ha qualche stoffa a prodigarsi al servizio del prossimo «dall'alto in basso», cioè in forma paternalista o maternalista. Nelle nostre opere, noi offriamo ai migliori l'occasione di esercitare quell'istinto: li richiamiamo nella stessa proporzione all'opera più difficile d'influenzare il loro ambiente anzi alla preoccupazione dell'ambiente stesso. Quella ragazza di cui si è fatto una governante di birichini, trova lì da formarsi un regno, vi si accantona, trascura ormai le compagne, presso cui l’azione sarebbe assai più ingrata. Se è d'ambiente borghese cristiano, poco male: perchè le compagne non hanno un gran bisogno di lei. Ma se è in un ambiente popolare, è un possibile fermento che si distoglie. Nelle nostre parrocchie popolari, dove quei possibili fermenti non sono tanto numerosi, pensiamo che un inconveniente delle opere è di ritirarli quasi tutti dalla pasta, a profitto di qualche gruppo e in pratica quasi sempre a vantaggio dei bambini.

    R. K. è un ragazzone di 18 anni, d'ambiente molto operaio. Lavora in officina. Intelligente e generoso, fa parte d'un gruppo della «Città dei Giovani», dopo essere stato due anni lontano dai doveri della religione. È venuto stasera a trovare uno dei sacerdoti e gli confida i suoi apprezzamenti sull'anno nuovo che sta cominciando.
    — A quanto pare, quest'anno la parrocchia raggrupperà i giovani che lavorano, vero?
    Infatti, prima di andare in colonia, il nuovo direttore dei giovani ha fatto di tutto perchè tutti si iscrivano alla I.O.C.
    — Per me, questo non ha significato.
    — Preferiresti continuare ad andare alla «Città»?
    — Oh, no! neppure questo andava bene per me: la maggioranza era composta da studenti. Alle riunioni, essi prendevano alcune pagine del Vangelo, e discutevamo all'infinito sulle parole. Noialtri operai ci capivamo niente. e quando facevamo qualche domanda, quelli non ci rispondevano. Siamo stati zitti e siamo andati a fumare una sigaretta in fondo alla sala, aspettando la fine. Allora, per fare qualche cosa, ho accettato di fare il caposquadra dei più giovani (dagli 11 ai 14 anni) durante la colonia. Tutto è andato bene ed ora vorrei continuare.
    — Non è affar tuo: tu sei operaio e faresti meglio a far parte della I.O.C.
    — Non so che cosa potrei portare agli altri nella I.O.C.; e poi, in officina sono con gente vecchia. Credo di poter fare un vero apostolato solo coi bambini.
    Questo ragazzo che ha della stoffa non fu in realtà strappato al suo vero ambiente?
    Per la scelta degli ausiliari si presenta un dilemma angoscioso: prenderemo dei giovani studenti o dei giovani operai? Nel primo caso arrischiamo di vedere l'opera mal guidata, in modo inadatto.
    Mesi or sono noi radunavamo le ragazze che si occupano dei bambini e che avevamo scelte fra le studentesse divenute istitutrici, professoresse o segretarie di liberi professionisti, per parlare loro di questo problema dell'educazione operaia. Esse ci confessavano allora:
    — Come volete che formiamo i nostri bimbi in maniera più popolare? Noi non conosciamo il loro ambiente...

Se invece facciamo appello ad anziani del medesimo ambiente, come nel caso sopra citato di R. K., ritiriamo dalla massa elementi di cui essa ha tanto bisogno, e praticamente i migliori. D'altronde, anche per questi si presenta la questione di sapere se non hanno dimenticato i problemi del loro ambiente, e di conseguenza se qualcuno che non avrà l'angoscia di lavorare alla soluzione di quei problemi vitali è capace di collaborare alla formazione di bambini che devono essere profondamente integrati in quell'ambiente dove noi, del resto, vogliamo lasciarli. Siamo al punto critico. Che fare, allora? Lasciare tutto tale e quale? Non è una soluzione, ma tuttavia non si può continuare a non vedere niente, col pretesto che non troviamo la soluzione immediata.

In questo settore degli aiutanti si giunge anche ad utilizzare, male o abusivamente, certi elementi che si considerano volentieri come i più preziosi, perchè si mettono maggiormente a nostra disposizione e sono sempre pronti ad aiutarci. Si è troppo tentato d'utilizzarli in faccende che si battezzano «Azione Cattolica» e che hanno soltanto un vago rapporto con l'apostolato di conquista: porteranno inviti, stamperanno programmi, garantiranno la parte materiale delle feste, raduneranno gli effettivi per le sfilate, ecc... È comodo, pratico; si risparmia il denaro con cui bisognerebbe, altrimenti, pagare qualche impiegato: ma questo inganna i preti e i membri dell'opera, col rischio di sottrarre il laico al lavoro d'influenza che gli si dovrebbe affidare e persino di comprometterlo per sempre agli occhi dei suoi compagni di lavoro o dei suoi vicini di quartiere.

Sempre su questo argomento dei dirigenti delle nostre opere, vorremmo indicare un altro pericolo più facile da evitare; moltissimi confratelli ne avranno sofferto certamente come noi. Si tratta dell'«invecchiamento» delle opere. Questo succede abbastanza normalmente: oggi, sotto l'impulso d'un nuovo cappellano o d'una nuova direttrice, sorge una pleiade, si forma un gruppo ardente, che diviene un nucleo d'azione.

Negli anni belli, tutto rinasce alla speranza e la vita è intensa. Disgraziatamente i giovani non restano giovani e si esita a sostituirli: fanno così bene, sono così devoti, amano talmente la loro opera, che metterli in pensione significherebbe spezzar loro il cuore! Essi pretendono di non dimenticare che sono stati giovani, ma non capiscono che i gusti dei giovani d'oggi possono non essere gli stessi dei giovani del loro tempo. Allora gli «anziani» diventano odiosi ai «giovani» e questi non vogliono più ritornare; gli «anziani» arrivano a soffocare l'opera che avevano creata con tanto amore e con tanto zelo.

Ma questo non è inerente a tutto ciò che vive?

Sì, diamine! Siamo d'accordo che tutti gli scogli che le opere conoscono sono una cosa naturalissima. Nel nostro povero mondo è difficile trovare una soluzione ideale; perciò, non proponiamo la soppressione radicale delle opere; pensiamo però che è utile vedere bene il limite delle loro possibilità, specialmente in materia di conquista nel mondo popolare. Bisogna riflettervi su, e non tranquillizzarsi con l’andar a gridare ai quattro venti:
— Noi formiamo l'élite... noi abbiamo in mano l'avvenire.....

Bisogna conoscere bene le opere, per porvi riparo. Torniamo a mettere cento volte la nostra opera sul telaio e raggiustiamo i nostri metodi.

 


NOTE

(1) Per questo, ad esempio, fra i metodi educativi che ci vengono attualmente proposti per i fanciulli, ce n'è uno - quello che ha dato origine ai Movimenti cristiani dell'infanzia (Coeurs Vaillants et Ames Vaillants de France) - che vuol sfuggire ai difetti da noi accennati.

Il Movimento C.V. e A.V. è impregnato della stessa spiritualità missionaria dei movimenti specializzati tipo I.O.C.; la sua originalità consiste nell'aver esso pensato i problemi dell'infanzia come un insieme di problemi di vita, nello stesso modo con cui i movimenti specializzati hanno pensato il Movimento operaio, rurale, marittimo, ecc... Qualunque sia l'insufficienza delle «opere» e dei metodi educativi, è ben certo che i problemi dell'infanzia, e in particolare quello dell'educazione cristiana dei bambini, non possono essere trattati per preterizione. Il Movimento C.V. e A.V. sa che non si cristianizzerà l'infanzia unicamente con un metodo d'educazione, ma concatenandosi con tutta l'Azione Cattolica e integrando il problema dell'educazione, come un elemento fra gli altri, nel problema della ricristianizzazione della società e delle istituzioni. Pensiamo che sia la prima volta che una tale impresa ha ottenuto un principio di realizzazione.

Siamo, d'altronde, ben lontani dal fatto che il metodo C.V. e A.V. sia pienamente capito dagli educatori che. attraverso la Francia, pretendono di servirsene. Molti lo riducono ad una ricetta «d'opera»: ma noi potremmo dire altrettanto dell'utilizzazione che qua e là si fa dei metodi della I.O.C., della I.A.C., ecc...

 

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