Questi motivi non dovrebbero bastare per impedire di «riprendere in considerazione oggettivamente» il problema delle opere e d' intendersi su un rinnovamento dei metodi.

Alle volte bastano, purtroppo. È umano. C'è poi anche un'altra ragione superiore, che interviene nelle discussioni su questo tema e confonde le prospettive; e cioè, nell'apostolato vi sono due grandi tendenze, che potremmo sintetizzare con questi due titoli: ci sono i «salvatori d'anime» e i «costruttori di cristianità». D'altronde, questa distinzione servirà da preambolo per quello che qui pensiamo.

I primi vedono innanzitutto la salvezza individuale delle anime, da garantirsi con tutti i mezzi possibili, siano essi mezzi spiccioli, siano vaste reti destinate a trascinare o a trattenere nel bene folle di giovani e di vecchi. Per essi conta il numero delle anime che saranno salve nell'ultimo giorno, il pentimento finale del numero maggiore possibile. Vanno alla pesca con la rete o con la lenza: ma innanzitutto li preoccupa il numero dei pesci da catturare per la pesca celeste, e li tormenta il pensiero dell'immenso numero di quelli che si avviano all'eterna perdizione.

I costruttori di cristianità non distolgono certo gli occhi da quello spettacolo, ma sono specialmente assillati dal pensiero del «regno di Dio» da far progredire. Pensano più alla massa, in modo maggiormente «comunitario»: e l'oggetto della loro preoccupazione è rappresentato da quelle vaste correnti di vita cristiana che vorrebbero lanciare attraverso la società. Il loro assillo è lo spettacolo delle masse che sfuggono all'influenza cristiana: il loro sogno è quello di rifare una società sempre più impregnata di cristianesimo. Se gli uni, per usare l'espressione già banale, vanno alla pesca con la lenza o con la rete, essi sognano di cambiare l'acqua dove sono immersi i pesci.

Battezzare il mare, insomma?

Precisamente!...

Ma, in pratica, il risultato non è identico?

Niente affatto! S'intende che non pretendiamo che -un apostolo possa escludere dal suo pensiero e dal suo desiderio l'uno o l'altro aspetto. I due punti di vista prendono di mira la stessa meta. Nel cuore e nella mente del medesimo apostolo, la salvezza d'un più gran numero e la maggior gloria di Dio si confondono e si condizionano; tuttavia, le due prospettive esistono e, secondo quella che attira lo sguardo dell'apostolo, le preferenze di lui si volgono verso questo o quel metodo di apostolato.

Nel campo delle opere, che cosa ne risulta?

Se io cerco innanzi tutto la salvezza individuale, è logico che con le mie opere cercherò d'arrivare al maggior numero possibile di fedeli. Ottenere nei miei catechismi, nelle mie sale o nei miei corsi il più possibile di fanciulli e di giovani: e al maggior numero accendere almeno una fiammella di verità! Qualcuno mi dirà che molti mi abbandoneranno quanto prima e che io preparo generazioni d'indifferenti. Per parte mia, penso che questi indifferenti d'oggi o di domani hanno nondimeno già una certa tinta cristiana, un piccolo bagaglio; che «qualche cosa» resterà del loro passaggio accanto a noi: che un giorno o l'altro, l'ultimo giorno specialmente, il fuoco intiepidito sotto la cenere si sveglierà, non foss'altro che per accogliere bene gli ultimi sacramenti. Come condannare questa condiscendenza materna? come non esserne commossi? Si può infatti tagliare il ponte o spegnere la miccia che fuma ancora?

Invece il costruttore di cristianità, nel fare il bilancio delle opere, non si consola così presto col numero che vi vede e con i semi-indifferenti che esse preparano. Pensa che una società non è una somma d'individui: essa ha bisogno di capi e d'istituzioni: il cristianesimo non è soltanto un'assicurazione per la vita eterna. Pensa che il piano soprannaturale della salvezza è costruito sulla natura, incarnato nell'umano, e che se oggi la salvezza di certe anime può essere garantita in una società pagana, domani una  società più cristiana garantirà la salvezza d'un maggior numero. Egli vuole costruire a lunga scadenza, dovesse anche impiegarvi un tempo maggiore, dovesse anche sacrificare alcuni anni di lavoro.

Non si tratta, del resto, di dimenticare l'una o l'altra delle prospettive, né di sacrificare l'una all'altra. Ma è bene, quando parliamo della conquista delle masse popolari, constatare con don Godin (vi ritorniamo come ad un fatto di base) che la mentalità popolare è essenzialmente «collettiva» e che la massa si convertirà e si manterrà cristiana solo collettivamente. Alla luce di questa constatazione, voi indovinate che noi poseremo di preferenza lo sguardo di costruttori di cristianità sulle opere, per apprezzarne il valore di conquista.

Vi sembra trascurabile la loro efficacia per la conversione individuale?

Dio non lo voglia! Quante volte, nelle nostre visite a domicilio, nei nostri incontri per la strada, nelle nostre visite ai malati, abbiamo «ripescato» delle anime o sentito un terreno ben preparato, perchè sino a tredici o quattordici anni «egli» od «ella» erano venuti al patronato, erano stati chierichetti; avevano fatto parte d'una società ginnastica! Sono risultati che non si ha il diritto di ridurre ai minimi termini.

Perciò in questo capitolo ci limitiamo a porre un problema, come ne abbiamo posti e continueremo a porre tutti gli altri, come un elemento dell'immenso ed unico problema. Non abbiamo la pretesa di dare una soluzione: spetta ai nostri confratelli, come a noi, di cercarla. Abbiamo detto sin da principio che non pretendevamo di offrire questa soluzione; ma semplicemente di avere lo scopo di destarne l'inquietudine e la ricerca. Tutto lo scopo di questo libro è di fondare una «parrocchia missionaria» e negli «ambienti popolari». È da questo punto di vista che vorremmo giudicare le opere. Non abbiamo puntato troppo su di esse e contato su di esse troppo esclusivamente? Dobbiamo seguitare a rimettere totalmente in esse la cura d'intaccare la massa che abita nei nostri territori parrocchiali? Non sono diventate a nostra insaputa, in modo molto sottile, altrettanto ostacoli quanto mezzi? Ecco il problema!

Ma non abbiamo ancora discusso sul serio: è forse ora di farlo.

Se lo volete, raggrupperemo le questioni che sembrano imporsi intorno ai tre nuclei d'opere:

1) quelle che chiameremo opere ricreative;

2) le opere educative;

3) le opere di carità.

 

LE OPERE RICREATIVE

Che cosa intendete per opere ricreative?

In primo luogo e quasi in totale mettiamo sotto questo titolo le società sportive e ginnastiche, le fanfare ed anche i patronati mal intesi, che mirerebbero solo ad occupare il tempo, a sorvegliare e a distrarre i bambini: insomma, i patronati che vorrebbero essere o che sarebbero in sostanza semplici rifugi per l’infanzia. D’altra parte è evidente che le questioni da noi presentate riguardo a queste opere possono toccarne altre che, senza avere lo stesso fine, arrivano per deformazione a meritare lo stesso rimprovero.

Per queste opere di puro divertimento, di pura ricreazione, diciamo subito che siamo severissimi. È possibile che in parrocchie di cristianità e in campagna il parroco faccia benissimo ad organizzare le ricreazioni dei suoi giovani per molteplici ragioni che non abbiamo il tempo di studiare qui. Ci fu un'epoca in cui l'anticlericalismo era tale, e così grande il fosso tra il prete e i fedeli, che bisognava assolutamente gettare un ponte su quel fosso, attaccandosi a ciò che poteva corrispondere allo scopo. Ma nell'ora attuale, l'Azione Cattolica ci ha fornito un ponte di tutt'altro genere, e noi mettiamo in dubbio l'opportunità delle società sportive nelle nostre sconfinate parrocchie dei dintorni, dove ai preti manca il tempo necessario per un ministero più sacerdotale. Per conto nostro, abbiamo bandito quelle società, perchè le esperienze che ne avevamo fatto altrove, gli spettacoli che avevamo avuti intorno a noi, ci avevano sempre rattristati, e perchè gli sforzi che esse esigono sono veramente troppo grandi in confronto ad un rendimento troppo scarso. A noi sembra che lo sforzo da esse richiesto da noi preti non sia uno sforzo apostolico e che esso minacci d'ingannare e persino di fare talora del male a coloro ai quali vogliamo arrivare.

In un patronato dove abbiamo trascorso alcuni anni, abbiamo diretto la società sportiva di fianco alle altre opere e agli altri movimenti specializzati d'Azione Cattolica. Ebbene, possiamo affermare che, senza nessuna eccezione, non abbiamo visto rimanere cristiano nessun giovane formato da quella società. In una stessa famiglia, il fratello maggiore ne faceva parte e il minore no: il primo è finito male, il secondo è un ottimo cristiano. In un'altra famiglia, i due figli maggiori, estranei alla società, sono diventati ottimi padri, mirabilmente preparati al matrimonio: il più giovane, sportivo, era cristiano solo di nome. Fra la stessa gioventù, per individui diversi — ne abbiamo fatto esperienza infinite volte — l'adesione alla società sportiva era un risultato o una causa di abbassamento spirituale; constatavamo invece sempre un'ascesa in chi se ne staccava e una disaffezione alla società sportiva in chi saliva spiritualmente.

Tutti i preti che si sono occupati seriamente dell’Azione Cattolica e che sono stati interrogati da noi. ci hanno fatto le stesse osservazioni ed avevano fatto le identiche esperienze.

È così difficile spiegare questi fatti? In un'epoca di materialismo, non andiamo verso l'errore, favorendo il culto dei muscoli, la religione dei muscoli? ... Spieghiamoci: noi non intendiamo condannare lo sport per sé stesso. Condanniamo invece lo sport che pretende di essere «religioso», un'attività religiosa, una propaganda religiosa. Ora, si voglia o no, i giovani che vengono a fare dello sport da noi arrischiano di prendere ciò per un'attività religiosa.

Ricordo che, all'indomani d'un concorso in cui la nostra società non si era particolarmente distinta per numero, un anziano, malcontento perchè non insistevamo abbastanza sul reclutamento dei giovani, mi diceva:
— Reverendo, perchè vi preoccupate d'altro? Dal momento in cui un giovane ha aderito alla società ed ha varcato quella soglia, egli è con noi, è del nostro partito, e ciò è sufficiente...!

Infatti i nostri giovani arrischiano di credere che basti tirar calci ad un pallone «cattolico» per essere cattolici, per servire la causa cattolica, e che basti, per servire questa causa, riportare vittorie sportive contro la società avversaria, ecclissarla in una sfilata, superarla in un concorso.

La prima domenica in cui presi contatto con la società sportiva di cui parliamo, al mattino non vidi a messa quasi nessuno dei nostri giovani; nel pomeriggio, però, essi vinsero tutte le gare: e mentre allo spaccio del patronato «innaffiavamo la vittoria», mi dicevano con la miglior buona fede del mondo:
- Eh, reverendo! Dovete essere contento di dirigere la nostra società: tutte le squadre hanno vinto.
Ahimè! Avevo ben più voglia di piangere...

So benissimo che ci si dirà che lo sport è soltanto un mezzo, che si tratta di saperlo sfruttare, di mettere un regolamento, d'esigere almeno un minimo di vita interiore. Sono appunto queste le esigenze che ci ripugnano, questo doverci basare su un mezzo che non ci ispira fiducia. Noi inganniamo; inganniamo noi stessi, facendo affidamento sui reclutati, che in realtà non sono cristiani; inganniamo i nostri giovani, lasciando loro credere che sono cristiani quando non lo sono realmente. C'è un equivoco; non andiamo avanti nello stesso senso: essi badano al loro piacere e noi al loro progresso spirituale. Di qui eterni conflitti: e se anche non c'è conflitto, non c'è profitto apostolico.

Ripetiamolo: noi non siamo contrari allo sport in sé. Non trattiamo qui il problema dell'educazione fisica: abbiamo spesso constatato che giovani sportivi di società neutre venivano a trovarci, per ricevere una formazione cristiana: sentivano da sé che mancava loro qualche cosa. Negli sportivi «cristiani» accade il contrario: essi credono di avere abbastanza religione, perchè sono presso di noi e con noi...

Noi non vogliamo dire che queste opere non offrano al clero l'occasione di toccare individualmente qualche anima, una volta o l'altra: diciamo che c'è un'eccessiva sproporzione tra le energie spese (strappate quindi ad altre attività) e i risultati ottenuti. Collettivamente, nulla di fatto; né la fede né i costumi se ne trovano migliorati, né la chiesa è più frequentata, né il senso cristiano è accresciuto. Possibili anticlericali, o indifferenti leggermente ostili diventeranno indifferenti un tantino simpatizzanti: è un po' poco!... E di quelli che sono già cristiani in queste società non si fanno degli apostoli: non c'è l'ambiente, e neppure l'inquietudine.

Ma se non si divertono da noi non arrischieranno di andare altrove e di perdersi?

Abbiamo spesso udito questa obiezione, che ha certamente il suo valore. Essa, del resto, vale non solo per le società sportive, ma anche per altre opere che si sminuiscono e si riducono come dianzi abbiamo detto, al grado di una semplice occupazione ricreativa. Non si trattano così, per esempio, moltissimi patronati? Bisogna confessare che alle volte certi confratelli, per attirare i fanciulli ed ottenere il permesso dei genitori, hanno lasciato prender piede alla confusione. È successo che si offrono alle famiglie i servizi dell'opera per sbarazzarle della sorveglianza dei figli (1).

Abbiamo talmente abituato la nostra gente a questo, che non ci meravigliamo più udendo una mamma interpellarci in questi termini:
- Come mai non c'è il patronato, dato che la scuola è chiusa?

Non compiamo allora un'opera antisociale? La madre non ha bisogno di disturbarsi a rimanere in casa: dal momento in cui i maestri daranno il largo ai loro figli, se li prenderanno i «preti».

Su questo soggetto ci permettiamo di rinviare ad un ottimo opuscoletto ormai antico, e tuttavia più attuale e più rivoluzionario che mai: sono le «Riflessioni di un amico» pubblicate da un Padre Certosino sotto il titolo «A ritroso». L'autore fa in esse vedere che molte delle nostre opere, anziché guarire il male, non fanno altro che aggravarlo, perchè non si attaccano alla radice stessa, e perchè vanno verso il disordine, proponendo un rimedio contro natura e troppo rapido.

Nella nostra parrocchia abbiamo voluto evitare di cadere in questo difetto: non ci sono da noi patronati che occupino regolarmente ed obbligatoriamente i  bambini, appena sono usciti da scuola: non ci sono opere che li accolgano per tutto il pomeriggio, al giovedì e alla domenica. D'altronde, durante i quattro anni d'occupazione, quando le scuole restavano chiuse metà giornata, ci sarebbe stato necessario fare un patronato quotidiano, se avessimo voluto garantire assolutamente la sorveglianza totale dei bambini. Questi vengono convocati in date ore, per categoria, secondo l'età e secondo le riunioni di formazione che possono loro convenire. Il prete rimane allora nella sua funzione d'insegnante e di educatore, e i genitori sono costretti a provvedere alla sorveglianza dei figli. Conosciamo delle mamme che hanno rinunciato ad andare a lavorare: non tutte, intendiamoci; ma così almeno noi non veniamo a patti col male.

Mi direte che i bambini rischiano di vagabondare per le strade e i giovani di andare nelle società laiche... È certamente una disgrazia; ma considerate bene la questione: noialtri preti, in fin dei conti, abbiamo il compito di custodire i fanciulli e di distrarre i giovani? La nostra missione è quella di convertire, d'educare, d'evangelizzare e di somministrare i sacramenti. Ora, se i bimbi sono per la strada... ci sono anche gli adulti, e in modo non meno pericoloso.

Mentre noi passiamo il tempo a far giuocare i fanciulli, i loro padri sono all'osteria, le loro madri al cinematografo, i loro fratelli maggiori chissà dove. È un vero peccato che quei fanciulli vadano a zonzo, ma è ancor più triste che gli adulti si perdano e che le famiglie non siano cristiane: sarebbe meglio da parte nostra portar loro Cristo. Se potessimo fare tutto, naturalmente non avremmo il diritto di trascurare qualche cosa: ma siamo sovraccarichi di lavoro ed è impossibile far fronte a tutto. Bisogna assolutamente scegliere. La scelta migliore non sarebbe quella di andare con la massima celerità o di prendere la via più breve? (2)

Del resto, se si pretende di custodire a qualunque costo i bambini e i giovani, immaginate quanto verrà a costare! Facciamo loro fare dello sport presso di noi perchè altrimenti andrebbero altrove. Ma siamo logici: essi vanno altrove anche alla piscina, ed allora dovremo avere una piscina in casa nostra? vanno altrove agli sport invernali: dovremo avere una montagna cattolica? Come faremo fronte a tutte le nuove organizzazioni degli alberghi della gioventù, dei campeggi, delle società nautiche,... delle gite domenicali? Se vorremo accettare la sfida che senza tregua ci lancia l'evoluzione della vita, saremo eternamente in allarme: ogni iniziativa municipale o nazionale ci farà fremere, ogni nuova legislazione della gioventù o del lavoro ci sembrerà diretta contro di noi. Ricordiamo il vecchio principio degli antichi e saggi direttori di opere: «Sul terreno del piacere, siamo sconfitti in anticipo». Ricordiamolo, se pretendiamo di gareggiare con gli altri. Piaceri e gioie materiali, gli altri li offrono diversi da quelli del nostro repertorio: la loro lista dei vini è assai più ricca della nostra... Ed anche sul terreno delle gioie più sane, ciò ci presenta problemi quasi insolubili... Ad esempio, volenti o nolenti, dobbiamo riconoscere che nel momento attuale la massa operaia tende ai divertimenti misti. Alcune giovani lavoratrici dicevano un giorno a quelle della J.O.C. che le avevano condotte ad una passeggiata:
«Non verremo più con voi: siete molto gentili, molto simpatiche... ma con voi non ci sono giovanotti, e perciò ci si diverte molto meno».

Allora, intraprenderemo l'organizzazione delle gite miste, con la scusa di trattenere la massa? 

Bisogna dunque lasciare i bambini e i giovani nei loro divertimenti, sbandati o abbandonati ai cattivi influssi?

No: ma invece di voler sempre «organizzare», avere società nostre, non sarebbe più semplice e più apostolico cristianizzare ciò che esiste? L'organizzazione delle cose temporali non è affar nostro, l'amministrazione non è la nostra parte; ma quello di penetrare di spirito cristiano le istituzioni e gli individui è un compito che ci apre tutte le possibilità e che non limita il nostro raggio di azione ai nostri mezzi materiali e temporali.

Guarderemmo con occhio più compiaciuto delle opere di questo genere organizzate da laici cristiani: famiglie del quartiere, famiglie cristiane, si mettano d'accordo per reclamare una sala cinematografica con programmi propri; madri di famiglia, o sorelle maggiori, si riuniscano per condurre a spasso i figlioletti o i fratellini nel pomeriggio del giovedì. Giovani cristiani cerchino di fondare insieme una società sportiva aperta agli altri! E bisogna sperare che, a misura che le anime si convertiranno, tali istituzioni nasceranno da sé. A noi la cura d'incoraggiarle, di guidarle, badando bene di non provocarle artificialmente e di non tagliar fuori i nostri parrocchiani da quelli che li circondano.

Noi abbiamo sempre la pretesa d'organizzare la società e la sua vita, come se fossimo la maggioranza. Non dimentichiamo d'essere una piccola minoranza. Noi vogliamo tirar su ogni sorta di istituzioni cristiane, e non facciamo che salvare l'esterno. Diciamoci bene che siamo in un mondo pagano. Avrebbe potuto san Paolo pensare d'organizzare le ricreazioni e le istituzioni dei suoi primi cristiani?... Facciamo sorgere cristianità numerose, radiose, solide, e quando saremo numerosi, di per sé stesse le istituzioni diventeranno cristiane. Altrimenti le nostre organizzazioni sono votate alla morte per mancanza di combattenti, a meno che esse stesse non si paganizzino per osmosi... Ma questo è un altro problema, sul quale avremo indubbiamente l'occasione di ritornare.

Bisogna ancora dire che, attaccando i patronati-ricreatori, non abbiamo mirato, che a quelli i quali si accontentano d'essere istituti di vigilanza. Ahimè! A voler essere sinceri, bisogna confessare che sono numerosi, o che almeno vi fu un tempo in cui erano numerosi. E noi temiamo molto che un visitatore avvisato, il quale, un giovedì o una domenica, facesse il giro dei corsi di patronato, sarebbe forzato a constatare che ce ne sono ancora troppi dove non è in corso un gran lavoro di formazione cristiana.

A più forte ragione possiamo mettere in dubbio che vi si forgino futuri apostoli, e apostoli operai.

 


NOTE

1) Questa tendenza dei genitori a ridurre al minimo la loro missione di educatori, spiegabile con la diminuzione del tempo e delle cure consacrate alla vita familiare, si trova favorita dallo sviluppo, forse attualmente necessario, di certe opere sociali, dal sistema degli asili, delle colonie estive, dei patronati, delle mense scolastiche, ecc... L'ispirazione di queste opere è certo ottima, perchè lo scopo è quello di aiutare le famiglie, sebbene non sempre manchi il secondo fine della propaganda o dell'accaparramento: ma ci si chiede se in sostanza, rimediando parzialmente ai mali dell'attuale organizzazione del lavoro, essa non favorisca e non prolunghi questo stesso stato di cose.

Si deve notare il genere d'accoglienza fatto dalle famiglie operaie alle iniziative private o ufficiali che hanno la pretesa di

venire in aiuto ai genitori. Le une, certo, ne usano con discrezione, secondo la portata dei loro bisogni reali; ma le altre finiscono per trovare naturale lo «sbarazzarsi» dei bambini e delle bambine all'ora dei pasti, al giovedì, alla domenica. durante le vacanze, cioè durante le ferie pagate. Esse li affidano al miglior offerente, ossia alle opere che chiedono loro poco o niente. (da «Massa operaia», n. 3, pagg. 55-56. Inchiesta sui sentimenti e sulla pratica religiosa delle famiglie operaie).

(2) Se da noi abbiamo soppresso il patronato, non è solo per non incaricarci della sorveglianza dei bambini, ma anche per  motivi esposti più innanzi, a proposito delle opere educative.

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