E al di fuori della Messa?

Al di fuori della Messa abbiamo i vespri, ancora mantenuti per principio in certe parrocchie popolari (ma nessuno ci viene più); — abbiamo delle processioni lamentevolmente esigue, organizzate senza apparente necessità: il signor curato mobilita tutti per dare (come diceva don Remillieux) «illusorie soddisfazioni al Cuore di Gesù». Ciascuno vi si annoia (sempre la noia, la mortale noia!). Poiché nessuno sa per quale ragione si gira così intorno alla chiesa processioni del mese di san Giuseppe, del mese di Maria, del mese del Sacro Cuore. In queste processioni il clero presiede alla riunione del medesimo gruppetto di pie persone e dà loro eternamente la benedizione del SS. Sacramento, senza che con questo diventino migliori: mentre gli altri, quei famosi altri di cui non ci si occupa, restano metodicamente fuori ed in eterno vi rimarranno, perchè questo non li riguarda, né presenta alcun interesse per la loro vita.

Non trovate strano e triste che, avendo la possibilità d'organizzare, al di fuori della Messa, cerimonie popolari, dove l'adattamento potrebbe andare al galoppo e che potrebbero essere missionarie — destinate cioè ad attirare un mondo diverso da quello parrocchiale — ci siamo ridotti a queste miserie? E che, quando apriamo o chiudiamo una riunione non liturgica, siamo incapaci di far dire ai fedeli presenti qualche altra cosa che non sia un Pater Noster o una Ave, Maria ripetuti come una formalità, senza che nessuno pensi alle parole che gli escono dalle labbra; neppure si recitano simultaneamente, tanto è assente il senso della comunità in preghiera? E non parliamo poi delle «preghiere del mattino» o delle «preghiere della sera» recitate in comune in parrocchia o nei collegi, con quel brio che tutti sappiamo, in formule che quasi nessuno segue…

Perchè tutte queste deficienze nella celebrazione del nostro culto cristiano?

Esse si spiegano così: noi ci abbandoniamo ad un ozioso conformismo. Abusiamo del consiglio di san Paolo: «Custodisci il deposito…». Noi conserviamo le tradizioni!; ripetiamo all'infinito ciò che si è fatto nella nostra parrocchia, o «ciò che si fa» senza compiere il necessario sforzo di adattamento a coloro che sono oggi i nostri parrocchiani. Ci culliamo nell'illusione che i fedeli lì presenti traggano profitto da ciò che diamo loro, quando in realtà essi si annoiano educatamente e pregano solo in maniera individualista, seppur pregano. Noi ci disperiamo talora vedendo in essi poca premura e moltiplichiamo gli appelli («Venite per dare l’esempio») o le scipitaggini («Vi ringrazio di aver voluto intervenire così numerosi»). E d'altronde sappiamo bene che né il loro numero né le loro qualità aumenteranno, finché non avremo cambiato il metodo.

Bisogna riconoscere che purtroppo le vostre critiche corrispondono alla realtà. E del resto la maggioranza dei preti è d'accordo con voi. Ma quali riforme proponete? Che cosa fate nella vostra parrocchia?

La risposta a questa domanda non può essere data che in parecchi tempi. Ciò che noi ci sforziamo di fare deriva anzitutto da due principii: la parrocchia è una comunità e la preghiera collettiva deve perciò essere comunitaria; le nostre parrocchie appartengono all'ambiente popolare e la loro preghiera collettiva deve dunque essere adattata all'anima popolare. Inoltre, dobbiamo anche distinguere molto nettamente due piani. C'è la liturgia propriamente detta, che è la preghiera dei fedeli: nella sua celebrazione dobbiamo certo pensare ai nuovi convertiti ed anche agli infedeli che vi assistono incidentalmente, ma direttamente essa è fatta per gli «iniziati», nel senso antico della parola. E ci sono le cerimonie extra-liturgiche, quelle della sera in generale, che noi compiamo certamente per la comunità cristiana, ma ancor più per gli infedeli che cerchiamo di attrarvi.

Ritorniamo anzitutto sui nostri due principii. Per diventare viva e conquistatrice, la nostra liturgia deve essere in primo luogo comunitaria. Non è che una parola, ma quanta luce irradia! E se alla sua luce si volesse ripensare tutta l'attività liturgica della parrocchia, la si potrebbe trasformare. Dobbiamo convincerci (noi per i primi) e convincere i nostri fedeli che la parrocchia è un'unità, un'espressione della Chiesa «una», che ha la sua preghiera da far salire, il suo culto da rendere a Dio, una preghiera ed un culto che non sono di carattere individuale, ma sociale; che in chiesa si prega tutti insieme per assicurare la gloria di Dio e a beneficio dell'intera Chiesa; che la messa principalmente è il Sacrificio di Cristo, offerto dal Corpo mistico, senza che la sua celebrazione lasci posto all'individualismo. Questo deve essere meditato, spiegato, ripetuto senza tregua, come una dominante del nostro insegnamento, un tema di fondo su cui sarà ricamato il resto. Bisogna eliminare spietatamente il disaccordo, che contraria il carattere comunitario della preghiera parrocchiale. E non solo quello che trascina i fedeli verso cappelle o verso altre parrocchie (come spesso si fa, per tenere con sé «il proprio mondo»), ma il disaccordo dell'atteggiamento, interno od esterno. E bisogna contemporaneamente organizzare tutto perchè la celebrazione effettiva sia, il più possibile, comunitaria. Per riuscire su questo punto, abbiamo maggior facilità nelle nostre parrocchie popolari che in quelle borghesi; perché il mondo popolare è molto meno individualista di quello borghese, come torneremo a dire più diffusamente, parlando del problema della cultura. Tutto ciò che è comunitario, risponde ad un profondo istinto della sua anima. Noi diciamo, in secondo luogo, che la nostra liturgia deve essere adattata. Non pretendiamo, con questo, introdurre mutamenti contrari alle prescrizioni canoniche, ad esempio nella messa solenne propriamente detta, o facendo cantare in volgare dal celebrante il «Libera» dell'assoluzione. No: questo genere di adattamenti è poco desiderabile, forse, ma spetta all'autorità ecclesiastica di esaminarlo e di deciderlo. Il nostro si muove in un campo libero. Ne daremo esempi fra poco: per ora, restiamo nelle linee generali. E diciamo:

Mentre la messa non cantata è celebrata all'altare da un prete che osserva strettamente le regole della liturgia, ci rimane da far partecipare i fedeli alla sua azione: a noi di farlo in modo che la loro partecipazione sia viva, reale, in corrispondenza con le esigenze della loro mentalità; a noi di farli agire e parlare in modo che l'azione del prete diventi la loro azione, intelligente e vissuta. Ora, che cosa vediamo fare in moltissime circostanze? O si lasciano gli astanti alla loro pietà individuale, o si «occupano» facendo loro cantare dei «Noi vogliam Dio», dei «Io son cristiano», dei «O salutaris », facendo recitare loro rosari o preghiere diverse, senza rapporto col Sacrificio. Nessuna autorità ecclesiastica è mai intervenuta per portare una condanna; qualche volta ha solo ricordato che bisognerebbe preoccuparsi un po' di più di ravvicinare il popolo cristiano alla liturgia. Perchè si pensa che questa autorità ecclesiastica si metta a scagliare fulmini contro i preti che fanno dire e cantare parole in stretta relazione con la liturgia celebrata? parole in armonia con una vita reale che esse esprimerebbero? Tutti gli «adattamenti» in questo senso sono dunque non solo permessi, ma incoraggiabili. devono estendersi su tutto: sugli atti collettivi che si richiedono dai fedeli, sui cantici che si fanno loro cantare, sulle parole che si fanno loro dire, sulle traduzioni che si pongono fra le loro mani. Bisogna che tutto sia espressivo ed abbia per essi un senso: non un senso astratto, scolastico, individuale (il senso che vi mettiamo noi, ma che ad essi sfugge); né un senso praticone, facile indubbiamente a cogliersi, ma non colto del tutto, perchè è stato indebolito dall'abitudine; un senso attuale, vivo, caldo della vita in cui si muovono i nostri fedeli, e che la trasporti su un piano divino.

Come fate ad applicare questi principii?

Parliamo innanzi tutto della messa. I nostri sforzi si dirigono specialmente alla messa parrocchiale: noi ne riparleremo fra poco. Ma non è inutile spendere una parola sulle messe basse: in primo luogo per sottolineare che noi le celebriamo basse il meno possibile, conformandoci alle rubriche diciamo realmente a voce alta, intelligibile per gli astanti, ciò che così dev'essere recitato. I nostri fedeli hanno il diritto di «sentire» le preghiere all’inizio della Messa, il Dominus vobiscum, il Sursum Corda, ecc.: e noi abbiamo il dovere di proscrivere dalle nostre consuetudini quel borbottio inintelligibile che solo può capire chi serve la messa. Abbiamo anche il dovere di far «vedere» la messa ai fedeli, di fare cioè gesti comprensibili e significativi. Un giovane prete diceva un giorno ad un confratello che solo nel giorno in cui aveva imparato a dire la messa si era reso conto del fatto che in certi momenti del Sacrificio bisognava fare sul calice dei segni di croce: durante tutta la giovinezza aveva servito un numero infinito di messe e seguito attentamente i celebranti, ma non aveva mai capito che i rapidi gesti da lui intravisti fossero segni di croce. Quanti fedeli potrebbero dire altrettanto! … Nello stesso tempo, naturalmente, noi insegniamo ai nostri fedeli ad essere attori, a rispondere insieme, ad una sola voce, alle preghiere del prete, a dire insieme e col celebrante il Gloria, il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei. Li abbiamo formati ad alzarsi insieme al Gloria, al Credo, al Prefazio, al Pater: ad inginocchiarsi insieme alla fine del Sanctus e dopo l'Agnus Dei: tutto per ottenere una «comunità in preghiera». Prima di cominciare la messa, annunciamo sempre ciò che stiamo per celebrare: — Oggi, 3 maggio, messa della scoperta della Santa Croce, con memoria di sant'Alessandro e dei suoi compagni martiri, e con l'ultima preghiera del tempo di guerra.

Vorremmo ugualmente poter giungere a far leggere in francese, a tutte le messe, almeno l'Epistola e il Vangelo, ma è un progresso ancora da realizzare. Ci arriveremo con l'aiuto dei «lettori» laici formati a tale scopo.

E i fedeli seguono le vostre indicazioni?

L'abitudine delle risposte è già presa: tutti rispondono. Per quel che concerne i movimenti, quasi tutti li fanno: sono poche le persone pie che si ostinano a stare in ginocchio durante tutto il tempo della messa.

E la Messa parrocchiale? è una « Messa solenne» non è vero?

Qualche volta, ma non sempre neppure più abitualmente. Noi riteniamo che bisogna conservare la messa solenne, liturgicamente cantata dalla folla (diciamo «dalla folla», senza di che, se ci si accontenta di cantori o di scholae, siamo agli antipodi del nostro pensiero, perché si rendono i fedeli non già attori, ma uditori). Non dimentichiamo però che siamo in parrocchia di missione, non in una parrocchia cristiana, e che ciò che sarebbe l'ideale per quest'ultima non lo è per noi. Noi conserviamo quindi talora la messa solenne, per avvezzarvi gradatamente i nostri fedeli, ma di solito utilizziamo altre formule.

Anzitutto noi fissiamo questa messa parrocchiale alle otto del mattino, affinché possa essere una messa di comunione. Vi convochiamo tutti gli elementi vivi della parrocchia, giovani dai movimenti specializzati, ma anche uomini e donne in piena vita, per averli lì, in un medesimo culto, l'insieme della cellula cristiana. Sono presenti tutti i preti della parrocchia, che vivono la messa in mezzo ai fedeli. Essi accolgono la gente a misura che essa arriva e le fanno prendere posto. Notate bene che non vi sono posti riservati; anzi, i primi arrivati prendono sempre i primi posti, senza lasciarne di vuoti. Così l'assemblea, più compatta, pregherà meglio in un unico slancio. Arrivando, i fedeli trovano su ogni sedia l’identico messalino, che lasceranno lì nell'andar via: possono possederlo per conto, ma ogni altro libro da messa è proibito spietatamente. Ciò permette d'ottenere una perfetta unanimità nell'esecuzione, indicando a tutti la pagina da prendere. Gli astanti sono quindi all'atto pratico, partecipanti. La risposta collettiva alle preghiere del celebrante è diventata così normale, che non la si nota neppure. Così gli atteggiamenti collettivi: ciascuno li assume come per istinto: a nessuno viene l'idea di comportarsi o di pregare in modo diverso dalla comunità. Si segue la messa molto da vicino. Alle volte, oltre alle risposte latine, interviene un coro parlato in francese, una preghiera letta in comune: un cantico i cui sentimenti traducono, in modo ampio e rigoroso, le preghiere e i gesti del prete in quel momento della messa. Nessun canto di schola, beninteso: è l'intera assemblea che canta e prega, con i suoi preti in mezzo ad essa... Di quando in quando la messa è celebrata di fronte al popolo, su un altare vicinissimo ai fedeli; in certi giorni festivi, l'altare viene persino drizzato sopra un podio, nel centro dell'assemblea. Di solito, però, la celebrazione si fa al posto normale, dove ciascuno può seguirla con lo sguardo. Ogni domenica, il pane e il vino sono su una stele, in mezzo alla navata centrale, dove i celebranti vanno a prelevarli solennemente al momento dell’offertorio. È l'offerta che parte dal seno della comunità.