MARIANO CROCIATA
Una pastorale per le aree interne
Il Regno - documenti 17 / 2022
Premesse
Il tema che affrontiamo è in larga misura inesplorato, salvo singole esperienze che probabilmente emergeranno anche dal confronto di questi giorni. Prima però di applicarci al tema della pastorale delle aree interne, bisogna osservare che in tutte le aree è parimenti diffusa una fatica variamente denunciata a tutti i livelli della vita della Chiesa; una fatica che non fa differenza tra città e campagna, pianura o montagna, o altro ancora.
La litania delle lamentazioni è così nota e penosa che non val la pena recitarla ancora una volta; basta fare cenno alla desertificazione delle chiese e dei seminari, alla perdita di contatto con le nuove generazioni e all’irrilevanza pubblica della religione nonostante l’assidua presenza di notizie a carattere religioso sui mezzi di comunicazione. Ci sarebbe peraltro molto da dire sul profondo mutamento culturale che sta alla base di tale fatica. Si dovrebbe allora menzionare la secolarizzazione, che nell’interpretazione di Charles Taylor consiste, tra l’altro, nel passaggio da una fede percepita come ovvia a una fede considerata come un’opzione tra le altre, e nemmeno tra le più semplici.
Ma si potrebbe anche aggiungere che un altro processo che ha enormemente influenzato anche il mondo della fede è la differenziazione per funzioni della vita sociale, cosicché la religione copre soltanto una sezione della realtà complessiva, perdendo di incidenza in tutti i settori su cui finora aveva esercitato il suo influsso; con il risultato che cristianesimo e religione non si corrispondono più, perché il cristianesimo non è più l’unica religione. In ogni caso, la percezione e gli effetti di tale fatica non sono uguali per tutti e dovunque, e tuttavia nessuna parte del paese se ne può dire del tutto esente.
È necessario osservare previamente che «pastorale» è un termine divenuto così generico da rischiare di essere inutilizzabile. Per lo più lo riferiamo a ogni tipo di attività che si svolga in ambito ecclesiale; bisognerebbe però almeno distinguere ciò che è a servizio diretto della fede, della sua formazione e della sua cura, e ciò che esprime la creatività della comunità cristiana in tanti ambiti connessi in vario modo all’esperienza credente. D’altra parte, se stiamo alla parola, pastorale ha a che fare con pastore. Bisogna perciò chiedersi: sono solo i ministri ordinati a svolgere quello che chiamiamo pastorale? Non è pastorale anche il servizio di diaconi e laici alla formazione cristiana, all’animazione liturgica, all’accompagnamento dell’azione caritativa?
L’azione pastorale ha questo di caratteristico, di essere svolta considerando le situazioni culturali e sociali delle persone, dei gruppi umani e dei relativi ambienti di vita. Essa si rivolge alle persone nella loro situazione. Perciò dobbiamo tenere presente, anche solo intuitivamente, la differenza tra i diversi ambienti in cui la Chiesa si trova a operare, a cominciare da quello urbano a finire a tutti gli altri tipi di attività e di insediamenti umani. Da qualche tempo l’attenzione è stata portata sulle peculiari esigenze della pastorale in ambiente urbano e metropolitano, vista la crescita esponenziale di giganteschi agglomerati umani; non meno difficile dire che cosa significhi fare pastorale in altre aree. Queste ultime presentano infatti una grande varietà.
Se, in particolare, apriamo il capitolo delle aree interne, la tipologia degli ambienti si fa anche qui molto ampia. Basti ricordare che secondo la classificazione più recente, compiuta dal Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (CIPESS) nel febbraio 2022, i comuni che sono lontani da centri che dispongono di adeguati servizi scolastici, sanitari e ferroviari sono quasi 4.000, cioè la metà dei comuni italiani, i quali occupano oltre il 58% del territorio italiano e ospitano una popolazione di oltre 13 milioni di abitanti.
Per questo, parlando di aree interne, sarà appena possibile avanzare indicazioni molto generali, che tengano conto delle loro caratteristiche principali, per poi, nelle sedi proprie, elaborare proposte e soluzioni più adeguate ai concreti singoli contesti. Le caratteristiche delle aree interne sono, infatti, ben diverse anche secondo altri parametri, per esempio a seconda della parte del paese in cui si collocano (una cosa è il Settentrione, altra il Centro, il Meridione o le Isole), della grandezza dei centri abitati (teniamo conto che si va da comuni o frazioni di poche decine di persone a centri di alcune migliaia di abitanti), delle distanze dei centri tra loro e da centri significativi (per parlare di aree interne, si deve partire da un minimo di 27,7 minuti necessari per raggiungere il polo di servizi più vicino, e arrivare a 69,9 minuti, oltre i quali si deve parlare zone ultraperiferiche; sappiamo, ad esempio, che in alcune regioni piccoli insediamenti a volte richiedono ore per essere raggiunti). È certo che i piccoli borghi, i comuni isolati, le zone di montagna sono tra le aree interne che richiedono una peculiare attenzione sociale e pastorale.
Pur nella differenza significativa tra ambiente urbano e altri ambienti, la risposta alle sfide e alle difficoltà emerse già da alcuni decenni è stata cercata in una formula che, al di là delle varianti, è ricon-ducibile alle cosiddette unità pastorali. Esse con-
sistono nell’aggregazione di due o più parrocchie sotto la responsabilità di un parroco o di un grup-
po di presbiteri, o a volte anche di diaconi, religiose o laici.
Le modalità organizzative delle unità pastorali – oltre che la loro stessa denominazione – cambiano e si adattano ai differenti contesti in cui vengono formate, secondo una criteriologia che tiene conto dei fattori che caratterizzano il territorio di riferimento e la disponibilità di ministri e di collaboratori. L’esperienza in questo senso è, in parecchie diocesi, già ampiamente collaudata, anche con risultati positivi.
Tuttavia non possiamo fare a meno di considerare che si tratta di un’operazione «gestionale» che, facendo i conti con la riduzione numerica di persone dedicate al ministero, oltre che di fedeli, opera in vista del dimensionamento delle unità pastorali secondo due fattori fondamentali: da un lato l’estensione sempre maggiore dei territori, e corrispondentemente un numero sempre più grande di fedeli, e dall’altro lato l’impiego di un sempre minor numero di presbiteri.
Non sarebbe giusto ridurre questo sforzo organizzativo a una sorta di tecnica aziendale di gestione dell’emergenza, poiché l’esperienza ha fatto anche maturare nuova coscienza ecclesiale nei fedeli e nei ministri ordinati, spirito di collaborazione, ricerca della comunione, talora anche senso missionario, e altro ancora. Anche questa è da considerare una via che condurrà a una riforma della vita della Chiesa in conformità alle nuove condizioni che l’evoluzione dei tempi determina. Tuttavia va pure detto che la soluzione adottata ha avuto innanzitutto, molto pragmaticamente, il carattere di una corsa ai ripari, al ridimensionamento necessario, più che essere il frutto del ripensamento indotto dalla profondità della trasformazione in corso, che certo non è solo di ordine quantitativo, e dall’esigenza di una visione d’insieme capace di interpretare il cambiamento e di governarlo in termini progettuali.
È comunque ormai acquisito che questo lavoro di riorganizzazione fa parte del processo di costruzione di una visione e di una risposta che guarda le questioni più in profondità, perché richiede l’accompagnamento di una riflessione sempre più attenta, come dimostrano i non pochi documenti emanati da diverse diocesi.
È difficile cancellare la sensazione di essere sempre in ritardo rispetto alla corsa che la realtà imprime, la quale muta con un ritmo sempre più accelerato. Concorre a questo ritardo l’impressione rassicurante in cui molti preti e vescovi si cullano per la persistenza di presenze e di partecipazione ad alcune iniziative ecclesiali ancora in diverse parti del paese; e fa la sua parte il loro sentirsi presi alla sprovvista, senza avere chiara visione della situazione e soprattutto delle possibili soluzioni, oltre che il fondato timore di fare passi che potrebbero rivelarsi precipitosi e alla fine dannosi. Da questo punto di vista distruggere e abbattere non è mai un buon criterio di azione pastorale; basti ricordare quella sorta di iconoclastia che ha segnato alcune esperienze post-conciliari, con gli effetti che conosciamo. La riforma strutturale, organizzativa e giuridica deve andare di pari passo con la maturazione di una coscienza e di una cultura, e prima ancora di una teologia e di una spiritualità che siano espressione di fede e di senso di Chiesa.
I punti fermi che dobbiamo tenere per avviare una riflessione adeguata devono essere i seguenti:
– Il carattere locale della Chiesa, in particolare in rapporto alla figura della parrocchia.
– Il cambiamento profondo del rapporto della Chiesa con il territorio a partire da due fattori: la mobilità e il digitale.
– L’inadeguatezza dell’impianto pastorale tridentino ancora di fatto operante nell’immaginario ecclesiale (le unità pastorali sono state talora realizzate adattando il vestito della civiltà parrocchiale al corpo nuovo della società e della Chiesa di oggi: troppo eterogenei per integrarsi).
– Il bisogno di una nuova visione di Chiesa, effetto di una nuova comprensione delle presenze nella vita della Chiesa: sacerdozio comune, ministeri istituiti, diaconato permanente, ministero ordinato.
Accanto a questi punti fermi, ciò che si può immaginare è una rivisitazione delle unità pastorali, o comunque le si voglia chiamare, alla luce però di alcune attenzioni: la riarticolazione non solo funzionale ma anche teologica della dimensione ministeriale della Chiesa, la rivalutazione dello stile di itineranza della pastorale ecclesiale e una nuova spiritualità dell’annuncio e della missione. Il tutto senza perdere di vista alcune esigenze: raccordare le varie dimensioni della territorialità oggi, tentare di comporre impianto tradizionale e innovazione nell’azione pastorale, tenendo conto in particolare del ruolo della pietà popolare.
Punti fermi
Se guardiamo ai Vangeli dal punto di vista delle preoccupazioni pastorali attuali, troviamo, prima che indicazioni sul da farsi, un respiro più ampio. Colpisce sempre la risposta che Gesù dà a chi, avendolo incontrato e rimasto segnato dalla sua presenza e dalla relazione con lui, gli chiede di poterlo seguire. Il caso esemplare è Mc 5,19: «Non glielo permise, ma gli disse: “Va’ nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ha avuto per te”». Anche in altri due casi, il rimanere nella propria casa e nel proprio ambiente di vita con una consapevolezza nuova è conseguenza naturale dell’incontro con Gesù: così in Mc 2,11 («dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua») e anche in 7,30. In realtà è tipico della narrazione evangelica presentare l’azione di Gesù rivolta a persone la cui vita è stata cambiata dall’incontro con lui e continua a scorrere nell’ambiente consueto ormai profondamente rinnovato da quell’esperienza.
Se immaginiamo delle proporzioni, nei racconti evangelici, la gran parte delle persone che sono state trasformate dall’incontro con Gesù rimane nel proprio ambiente di vita e non lo segue nella sua itineranza per le vie della Palestina e fuori di essa. Il regno di Dio avviene, per queste tante persone, nell’incontro con Gesù, pronte magari ad accoglierlo di nuovo quando si troverà a ripassare per le loro contrade oppure mosse a seguirlo per qualche giorno come folla che si aggrega al suo passaggio, ma ormai segnate per sempre dalla fede risvegliata dalla sua persona.
Sarebbe anacronistico, e perfino fondamentalistico, pretendere una traduzione letterale di simili riferimenti nell’attualità. Nondimeno esse non possono fare a meno di stimolare una riflessione, soprattutto in una fase della vita della Chiesa in cui, anche nelle nostre terre, tendono a scomparire molte strutture e spesso anche solo tracce di un sistema sociale integrato attorno alla visione cattolica o di quella che è stata chiamata la civiltà parrocchiale. Va a finire ogni residuo di un’epoca in cui la vita della Chiesa improntava e impregnava i ritmi, l’immaginario, i simboli dell’intera vita sociale. Adesso non possiamo continuare come se fossimo in una società plasmata dalla cultura cristiana. Un progetto culturale oggi non potrebbe mirare a tenere in piedi un impianto strutturante la vita sociale. I frammenti di un patrimonio culturale sempre più disarticolato nuotano in un mare che li rende sempre più incomponibili e scollegati tra loro, come brandelli di un naufragio. C’è bisogno di tenere viva la memoria e rinnovare, rendendola attuale, l’esperienza originaria dell’incontro; ci vogliono nuovi fermenti di vita di fede, unicamente capaci di ricostruire continuità con la memoria del nostro passato e di proiettare verso il futuro. Per questo si tratta di tessere reti e creare rapporti che diano forza ai legami essenziali anche in situazioni di diaspora.
Gli elementi costitutivi della vita di fede
Quali sono gli elementi costitutivi della vita di fede, e quindi di Chiesa? È assolutamente necessario riandare ai fattori costitutivi dell’insorgenza dell’esperienza credente ed ecclesiale. Il primo di essi è la convocazione. La comunità ecclesiale non nasce per associazione, come una federazione, non comincia dall’iniziativa di persone o gruppi, è frutto di un’elezione, di una chiamata. Essa è essenzialmente assemblea convocata da Dio per mezzo di Gesù nella forza dello Spirito. Questo carattere originario e costitutivo non può essere smarrito, qualunque sia la forma e l’effetto dell’azione pastorale. L’assemblea è convocata per la Parola e per l’eucaristia, come Pasqua sacramentale del Risorto Gesù. Perché l’assemblea possa attuarsi come evento di convocazione dall’alto c’è bisogno del ministero che presieda nell’annuncio, nella celebrazione, nello stare insieme. Questi dunque gli elementi costitutivi di ogni esperienza di Chiesa, che l’azione pastorale deve comunque assicurare. Sui modi in cui ciò debba comporsi in questo nostro tempo è tutto da vedere. Il meno che si può dire è che la storia della Chiesa ci fa conoscere modalità differenti di attuazione dell’esperienza ecclesiale.
La parrocchia e le sue trasformazioni
La forma più diffusa e consolidata di esperienza ecclesiale nel territorio è la parrocchia, almeno a partire dal III e soprattutto dal IV secolo. Sarebbe interessante ricomprendere il ruolo delle prime parrocchie, nate per la diffusione della fede e del battesimo nelle campagne, come punti di riferimento per territori più o meno vasti. Solo lentamente esse prenderanno la forma di un reticolo in grado di coprire tutto il territorio; per lungo tempo, e in alcuni casi anche oltre, essi hanno svolto la funzione di poli di vita ecclesiale, lontano ancora dall’immagine di parrocchia tridentina che esercita un’azione efficace di iniziativa e di controllo entro confini definiti in termini di circoscrizione ecclesiastica. Ciò che, al di là delle varie vicissitudini, la parrocchia significa dal punto di vista pastorale è la scoperta e l’applicazione del principio territoriale come condizione di incarnazione dell’annuncio cristiano e della sua accoglienza in un ambito definito di società e di cultura.
Il principio territoriale ha significato l’inserimento e la prossimità della Chiesa nella vita delle persone là dove esse conducono la loro esistenza, e quindi la capacità della fede di plasmare l’intero della condizione ordinaria quotidiana in mezzo alle case nelle quali e attorno alle quali essa si colloca. Il richiamo della Prima lettera di Pietro, nella quale ricorre il termine paroìkous («Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini»: 2,11), segnala la tensione che attraversa la radice originaria della parrocchia e la istituisce, in quanto fatta per credenti che sono aiutati a condurre la loro condizione di pellegrini sostenuti nella loro fede e sempre protesi verso un compimento oltre il tempo, perciò da stranieri. Il principio territoriale ha permesso di vedere esplicitato un altro aspetto essenziale dell’appartenenza ecclesiale, insieme al senso della prossimità della Chiesa alla condizione umana comune, e cioè il fatto che essa non si stabilisce su una base affinitaria, ma è aperta all’altro e al diverso, perché i fratelli e le sorelle non si scelgono, piuttosto si ricevono.
Inserimento nell’esistenza quotidiana e apertura verso tutti – in altre parole, prospettiva missionaria – devono essere garantiti sempre nella vita della Chiesa. La domanda che sorge a questo punto è, però, come sia possibile oggi assicurare tali dimensioni ecclesiali, dal momento che il rapporto con il territorio risulta profondamente modificato.
La prima e meno recente modificazione riguarda la mobilità, di cui l’automobile è l’emblema. L’avvento della mobilità ha prodotto almeno due effetti relativizzanti rispetto al territorio. Il primo riguarda il fatto che il territorio di residenza non è più così determinante nella conduzione dell’esistenza di molte persone. Ormai sono diversi i territori che possono essere abitati dalla stessa persona: quello di abitazione, quello del lavoro, quello dello svago o di altre attività. Questo significa che oggi possono essere abitati dalle persone diversi territori e che i territori si distinguono per specializzazione; non c’è più un territorio che possa assorbire la totalità delle attività e delle esigenze di una persona.
Il secondo effetto è quello che si produce sul piano ecclesiale, poiché anche l’appartenenza ecclesiale può essere gestita su base elettiva, anche se non necessariamente in termini di affinità in senso stretto. Questo non comporta che il rapporto con il territorio si trovi a essere annullato; significa invece che esso impone una valutazione più complessa sia dal punto di vista esistenziale e sociale, sia dal punto di vista religioso ed ecclesiale.
Ad accrescere la rilevanza di tale fenomeno interviene, ormai massicciamente, il peso del mondo che racchiudiamo nell’espressione digitale. Senza scadere in artificiose contrapposizioni tra virtuale e reale, pur riconoscendo i rischi di effettiva alienazione che si può correre a motivo di un suo uso dissennato, la comunicazione digitale esaspera ciò che la mobilità aveva da tempo già introdotto. Non si dà solo la possibilità di appartenere a territori diversi, ma anche quella di stabilire relazioni, in qualche misura smaterializzate, senza riferimento a un territorio, e quindi di far parte di gruppi, di svolgere attività, di costruire in qualche modo esistenze parallele, separate l’una dall’altra. I problemi che tutto questo pone sono enormi e qui possono solo essere evocati. Il minimo che bisogna fare è non perdere di vista che non ci può essere ingenuità riguardo alla complessità della vita personale e delle relazioni al giorno d’oggi.
Un modello da aggiornare
Di fronte a tutto questo il modello di parrocchia disegnato dai concili Lateranense IV e Tridentino non può più essere considerato in grado di reggere il confronto con le esigenze pastorali di oggi. Ci sono almeno due ragioni che segnalano l’esigenza di un superamento. La prima può essere ben espressa da quella distinzione introdotta dalla scuola di catechetica dei gesuiti di lingua francese, tra pastorale di inquadramento e pastorale di generazione. Di fatto, nel contesto plasmato dalla cosiddetta civiltà parrocchiale, la trasmissione della fede aveva un struttura intergenerazionale; si diventava cristiani per il solo fatto di nascere in un paese cattolico e di appartenere a una determinata famiglia, alla quale era implicitamente commesso il compito di trasmettere i rudimenti essenziali della fede e della prassi corrispondente alle nuove generazioni, che provvedevano a completare la loro iniziazione cristiana accedendo ai sacramenti, e col tempo anche integrando la loro formazione catechetica, di ordine dottrinale e morale, nella parrocchia di appartenenza.
A questa era affidato istituzionalmente il compito di accompagnare l’intera esistenza fornendo tutti i servizi religiosi necessari. Se qualcosa si è andato modificando nel tempo, ciò è avvenuto vedendo crescere le mansioni pastorali della parrocchia a fronte della fragilità della trasmissione familiare. L’azione pastorale della parrocchia era volta a inserire nei quadri dell’appartenenza cristiana istituzionalizzata tutti coloro che rientravano nel territorio di rispettiva competenza. Che questo sia per molti, sia preti che laici, l’orizzonte implicito di riferimento mentale, non è sostanzialmente modificato dalla molteplicità di iniziative di aggiornamento pastorale che da decenni vengono sempre più freneticamente introdotte, a fronte di una situazione in cui tutto e tutti sembrano sfuggire di mano.
Conosciamo le lamentele che da tempo si levano da ogni dove per denunciare, in un crescendo che non si può frenare, fenomeni che vanno dal fatto che dopo la cresima i ragazzi scompaiono dai radar ecclesiali, che dopo la comunione i più non ritornano per la cresima, che alcuni non chiedono più la prima comunione, che cresce il numero di bambini che non vengono battezzati, che molte famiglie vengono messe su senza matrimonio in chiesa, fino al fatto – la ciliegina sulla torta – che nessuno o quasi vuole più entrare in seminario. In realtà è la mentalità che si afferma a essere spesso aliena, nemmeno ostile, ma semplicemente estranea a preoccupazioni di tipo religioso. Con il risultato che non abbiamo nessuno più da inquadrare nelle fila dell’appartenenza cristiana, ma nello stesso tempo non sappiamo che cosa altro fare.
Infine scopriamo sempre di più che ormai il pluralismo religioso non è un fenomeno che interessi gli studiosi di sociologia, perché in realtà di altra religione sono i vicini della porta accanto.
Una pastorale generativa non è semplice da mettere in piedi e anzi da averne una qualche idea, anche perché richiede un paradigma ecclesiale completamente diverso, di cui non abbiamo idea, perché il nostro immaginario ecclesiale e i nostri schemi mentali di pastorale ecclesiale sono quelli della civiltà parrocchiale, per cui in un certo senso cerchiamo di inventarci soluzioni che funzionano sulla base di certi presupposti; solo che sono proprio i presupposti a essere venuti meno. E un presupposto venuto meno riguarda i ministeri, per non accennare alla scomparsa di evidenze morali e ideali condivisi, e quindi all’affermarsi di un pluralismo incondizionato e di un relativismo di principio o, ancora di più, di una specie di «religione» dei diritti civili.
Nell’ambito dei ministeri, va detto subito, la riduzione numerica ha fatto da acceleratore, ma la questione non nasce dal venir meno dei numeri. Il Vaticano II ha messo in moto un processo che forse adesso comincia a venire a maturazione. E il processo ha due acceleratori precisi: il sacerdozio battesimale di tutti i credenti e la reintroduzione del diaconato permanente. Si tratta di due «micce» destinate – per fortuna, bisogna dire – a far saltare l’impianto come l’abbiamo ricevuto. Qui basti evocare questioni di per sé troppo vaste. Se c’è un aspetto critico da segnalare, esso riguarda una pretesa alquanto irrealistica, secondo cui bisognerebbe promuovere il sacerdozio dei battezzati e il diaconato permanente lasciando inalterato il ministero presbiterale, non diciamo dal punto di vista strettamente teologico, ma certamente almeno dal punto di vista dei dispositivi giuridici e pastorali, ma anche di mentalità e di prassi consolidate, che lo regolano. È da anni che predichiamo la crescita e lo spazio dei laici, o anche la valorizzazione del ministero dei diaconi, ma intanto i preti sono nelle condizioni di diritto e di fatto di compiere tutto, salvo poi trovarsi sempre più soli.
Quello dei diaconi minaccia di diventare una sorta di fallimento storico, se la loro utilizzazione continua a collocarli nel ruolo di chi viene definito dal potere pastorale e sacramentale limitato rispetto a quello del prete; e la questione dei laici non si pone diversamente, se li vede perpetuarsi nella forma di passivi esecutori, che non crescono mai, se non nello svolgimento di servizi determinati. Siamo consapevoli del fatto che quando attecchisce al di fuori del clero, il clericalismo è perfino più feroce e pericoloso di quello dei preti. Tutto questo però non può continuare a tenere bloccata la situazione, ma richiede una rimodulazione del campo ministeriale, nel quale non è pensabile che avvenga un reale cambiamento se non sono coinvolti tutti i soggetti in gioco.
Un termine di confronto per avviare il processo di rimodulazione rimane At 6,2-4: «Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola”».
Non si tratta adesso di valutare il rilievo di questo passo degli Atti rispetto al sorgere del diaconato, quanto piuttosto di cogliere il riferimento principe a un metodo di riforma all’interno della comunità cristiana, nella quale le circostanze possono richiedere un cambiamento anche rilevante nella conduzione della comunità stessa. Il criterio è appunto la salvaguardia di ciò che è più importante, la cura di ciò che veramente conta per la diffusione del Vangelo, la guida e la vita della comunità cristiana. E il criterio è che non manchi mai chi si dedichi alla Parola, al Vangelo e alla preghiera in modo da assicurarli efficacemente all’intera comunità dei credenti. Questo comporta un ripensamento che veda articolarsi in maniera più ampia e libera il rapporto tra le varie figure operanti nella Chiesa.
Due importanti precisazioni vanno qui fatte. Il compito dei laici, come dice chiaramente il Vaticano II, è quello di animare cristianamente il mondo, cioè di testimoniare il Vangelo nelle condizioni ordinarie di vita nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti sociali, senza dimenticare che il cristiano non è tale perché sta in parrocchia, ma perché sa stare come tale nel mondo, rispetto al quale lo stare in parrocchia è un segno e un sostegno, per sé e per gli altri.
Accanto a questo compito fondamentale, alcuni sono chiamati a svolgere un servizio di collaborazione al ministero ordinato, talora anche assumendo compiti ministeriali istituiti. Analogamente, e ancora di più, questo vale per i diaconi permanenti, i quali conservano il loro servizio primario nella famiglia e nel lavoro; a essi è chiesto un servizio ecclesiale ulteriore in tutti gli ambiti definiti dai tria munera, e tuttavia la loro collaborazione ha una peculiare dedicazione all’ambito della carità e a quello dell’amministrazione economica e gestionale della comunità. Il diacono non è il sostituto del prete, non è un supplente, ha suoi compiti che non scimmiottano la presidenza della comunità, la quale spetta solo al presbitero, ma si fa carico con un’appropriata stabilità di ciò che serve allo svolgimento del servizio di presidenza compiuto con la cura primaria verso ciò che è essenziale per la vita della Chiesa.
Piste di lavoro
Le aree interne, pur avendo caratteristiche diverse tra loro a seconda della grandezza, della dislocazione, della storia e della cultura proprie di ciascuna, hanno in comune, tra l’altro, una significativa persistenza della tradizione, una più forte coesione sociale con il relativo maggiore peso della pressione sociale, un attaccamento più solido alle forme religiose della pratica ordinaria e soprattutto della pietà popolare. Anche queste caratteristiche non vanno esagerate quanto alla loro consistenza, e tuttavia la forza della tradizione è ciò che si fa soprattutto notare in esse, se le si mette a confronto con le dinamiche della grande città, per non parlare della metropoli.
Se questo dato corrisponde alla realtà, bisogna interrogarsi sull’approccio da riservare all’iniziativa pastorale in quel tipo di territori. Il senso di una tale attenzione non si dirige alla conservazione, o addirittura imbalsamazione, di un residuo del passato, a mo’ di operazione nostalgica. Il senso è invece quello di partire dalla situazione data per farla evolvere verso un’accresciuta vitalità ecclesiale.
Cercare di rispondere alla domanda su come fare Chiesa nella nuova situazione suggerisce di procedere a una riflessione da svolgere su tre livelli: un primo che, in termini di visione d’insieme, cerca di comporre tradizione e innovazione, e tocca la questione dell’evangelizzazione; un secondo, che impegna l’organizzazione interna della dinamica ecclesiale e delle collaborazioni, e interessa soprattutto l’ambito ministeriale; un terzo, che apra alle istanze delle condizioni sociali e materiali di vita proprie di quei territori più fragili.
Fra tradizione e innovazione
La questione più delicata e complessa riguarda l’intreccio fra tradizione e innovazione. Con tradizione ci riferiamo alle espressioni e alle manifestazioni della pietà popolare, ma anche a tutto quel sistema di pratiche religiose sacramentali e devozionali che formano il tessuto ordinario della vita di una comunità ecclesiale. In molti casi è diventato un problema assicurare quelli che da molti vengono vissuti come servizi religiosi di cui usufruire o da consumare senza pervenire a una consapevolezza nuova o a una presa di responsabilità nei confronti della comunità ecclesiale, al più concedendo qualche forma di collaborazione per singole attività o in determinate circostanze straordinarie.
Riuscire a tenere in piedi simili attività è spesso, già di per sé, una sfida o, quanto meno, un impegno gravoso. Ciò da cui guardarsi è sottovalutare certe pratiche o forme di pietà, o addirittura pensare che disfarsene sia indifferente. In realtà esse costituiscono come l’acqua di coltura di un residuo indistruttibile legame con le radici di fede dell’esperienza religiosa e cristiana. Il problema sta nell’innervare attività e pratiche religiose e di pietà di stimoli che abbiano per contenuto il Vangelo e coltivino la coscienza di fede in rapporto alla condizione di vita, alla storia personale e comune, alle responsabilità di fronte alla collettività.
Abbiamo imparato che incontri formali e riunioni formative non hanno più capacità di richiamo e di coinvolgimento. Bisognerebbe trovare modalità informali, spesso personali o familiari o di piccoli gruppi, per riportare l’attenzione sull’interesse di fondo dell’esistenza in rapporto alla fede. Proprio per questo, se un ministro ordinato deve spendere tutte le sue energie per l’organizzazione di una festa, difficilmente troverà risorse fisiche e spirituali, oltre che di tempo, per «dedicarsi alla preghiera e al servizio della Parola». C’è bisogno di cominciare da un nuovo assetto distributivo degli impegni, delle responsabilità, delle collaborazioni, sempre vigilando, perché «cultualizzazione del clero e burocratizzazione dei laici con un incarico ecclesiale sono i pericoli incombenti».
Ci vuole dunque la capacità di unire la dimensione della festa e quella della preghiera e dell’ascolto, nel caso specifico della pietà popolare, ma anche di altri momenti religiosi di raduno. È più semplice ripiegare solamente sull’uno o sull’altro aspetto, ma con l’effetto di non colpire il bersaglio che la pratica religiosa o la pietà popolare è chiamata a raggiungere, e cioè sperimentare un momento di reale e intensa condivisione del senso della vita interpretato da una manifestazione religiosa e nello stesso pervenire alla percezione di un annuncio più alto e profondo insieme, capace di afferrare quel senso in maniera più precisa e acuta, come solo il Vangelo sa fare.
Da questo punto di vista, una delle eredità più pesanti che ci portiamo addosso riguarda il sovraccarico dell’aspetto dottrinale e lo spazio che esso assume rispetto ad altre dimensioni dell’esperienza religiosa e della predicazione ecclesiastica. Si tratta di un’eredità che si manifesta nella riduzione verbalistica dell’annuncio e dell’evangelizzazione. Sappiamo fare quasi solo discorsi e prediche, quando ci riesce. In realtà la fede è cosa della mente e del cuore insieme, e i sentimenti non sono marginali o irrilevanti nell’abbracciare la fede e nel fare qualsiasi scelta di vita. La fede nasce dall’esperienza di un’affezione verso qualcosa, o meglio qualcuno, che si presenta con una promessa di compimento e con i tratti di un’incondizionata affidabilità.
Bisognerebbe ricuperare, in questo senso, due dimensioni essenziali non solo nell’ambito ecclesiale: la narrazione, cioè racconti di vita cristiana, e il dialogo. Si evangelizza di più e meglio così, che attraverso tante prediche e discorsi. Questo il papa ce lo ricorda e insegna in tanti modi.
Nel costruire una pastorale improntata a uno stile relazionale, di incontro e di accoglienza, non si può trascurare un aspetto che pure caratterizza questo genere specifico di ambienti. Bisogna fare i conti non solo con i pregi, ma anche con i limiti delle aree interne; vivere nei piccoli paesi e nei tanto decantati borghi non è un idillio. Come in tutti i piccoli ambienti, è facile scontrarsi con la grettezza di mentalità, con la chiusura e la diffidenza delle persone, con l’attaccamento alle consuetudini e la resistenza al cambiamento. Su questi aspetti la fede è chiamata a mostrare di essere capace di introdurre un soffio di novità e di trasformare (convertire) le persone e la loro vita. L’accompagnamento a scomparire, o anche solo il mantenimento dell’esistente, non può mai essere il proprio dell’azione pastorale della Chiesa; essa deve generare piuttosto nuovi fermenti e nuovi inizi di vita credente e di speranza.
La questione ministeriale
Per raggiungere simili obiettivi, bisogna riprendere in mano la questione ministeriale in senso lato. Vanno certo dismessi condizionamenti di tipo rivendicazionistico da parte non solo di laici, che rivelano povertà umana, culturale e spirituale. In tal senso c’è un lavoro lungo e complesso da fare. In attesa dell’elaborazione di un progetto rinnovato in tal senso, che deve partire da una riconsiderazione anche del ministero ordinato, non c’è dubbio che è necessaria una revisione graduale ma effettiva dei rapporti tra presbiteri, diaconi permanenti e laici, che vada nel senso di un’effettiva partecipazione, collaborazione, condivisione. È in qualche modo ciò che sta perseguendo o comunque intende anche perseguire il Cammino sinodale della Chiesa in Italia. Si tratta di capire, innanzitutto, che cosa significa esercitare il ministero ordinato lavorando in équipe.
Piccole comunità sparse in un territorio spesso molto vasto o impervio hanno bisogno di maturare ed esprimere una propria soggettività, e di non stare in attesa che giunga un prete trafelato a celebrare in fretta e furia qualche sacramento per poi scappare per un’altra destinazione. Una soggettività maggiore significa spazio ordinario per la preghiera e l’ascolto, e capacità di attendere e preparare un momento assembleare liturgico con la presidenza del presbitero vissuto con la dovuta appropriatezza, serenità e viva partecipazione. A questo scopo è necessario che qualche laico della comunità venga preparato a tale scopo e che l’organizzazione del rapporto tra parrocchie diverse consenta, anche a distanza temporale più lunga del ritmo settimanale, di vivere adeguatamente un’esperienza di assemblea celebrante. In taluni casi un lavoro di raccordo, in qualche ambito specifico, può essere svolto da un diacono permanente.
L’esperienza francese, dopo la drastica riduzione del numero di parrocchie avvenuta negli scorsi decenni, ha dato vita, in alcuni casi, alla formula del Polo vita ecclesiale, inteso come luogo di riferimento di un territorio che prima era servito da un certo numero di parrocchie. Esso vorrebbe essere punto di irradiazione e punto di incontro. Il rischio a cui va incontro tale esperienza è che le periferie del territorio di riferimento del Polo di vita ecclesiale vengano alla fine trascurate.
A loro volta, nell’esperienza delle unità pastorali, di fatto condotta in modi diversi, ciò che dovrebbe essere assicurato è una circolarità tale della presenza presbiterale da garantire un minimo di vita ecclesiale di qualità, grazie alla continuità di una rete di relazioni capace di tenere viva ogni parte della grande comunità di parrocchie. In questo un ruolo importante sono destinati a svolgere gli organismi di partecipazione, dal consiglio pastorale a quello per gli affari economici, con tutte le variazioni possibili nelle situazioni date, come unico consiglio di unità pastorale o come coordinamento o assemblea dei consigli parrocchiali o altre forme ancora.
Insomma, solo il coinvolgimento di tanti, in uno sforzo di effettiva partecipazione e, diciamo pure, corresponsabilità, nella logica dello schema uno-alcuni-tutti, potrà continuare a rendere vivo un territorio toccato dallo spopolamento e dall’invecchiamento. E non deve impressionare che questa istanza si faccia avanti, e anzi si presenti urgente, quando si vedono ridurre le presenze e la partecipazione. La sfida si raccoglie rilanciando, non arretrando.
Le formule possono essere tante; la questione vera rimane, come sempre, quella delle persone: dei preti, dei diaconi, dei laici, e diciamo pure anche dei vescovi. La formazione dei preti, anche di quelli che si stanno preparando in questi anni, non sempre va nella direzione della crescita della collaborazione e della corresponsabilità. Si comincia a parlare di leadership, ma la si intende nel senso di una guida, certo autorevole, sicura, competente, ma spesso anche autoreferenziale se non autoritaria.
Una difficoltà specifica sta nella frequente incapacità di accompagnare i laici in un cammino personale, non solo sul piano spirituale, ma non meno nella assunzione di impegni a servizio degli altri nella comunità. Abbiamo sempre più bisogno di preti (e anche di vescovi) che sappiano farsi collaborare, sappiano far lavorare, capaci di dare spazio e fiducia, mantenendo un coordinamento di largo respiro, e non con il respiro corto di chi difende con ansia, se non con le unghie e con i denti, il proprio spazio, preoccupato da invasioni di campo o di lesa maestà. In questo gioca un aspetto psicologico, ma spesso anche un’inadeguata coscienza o anche solo un certo tipo di sensibilità teologica e pastorale. La strada da fare è ancora lunga. La musica non cambia quando si tratta di mettere a collaborare presbiteri, anzi per certi versi si complica e da andante diventa mosso. D’altra parte non si può procedere in altra direzione, se non quella, come diciamo oggi, sinodale.
Non diversamente, come detto prima, si pone la questione per i diaconi permanenti, la cui presenza è una grande opportunità, oltre che un obbligo di accoglienza di una grazia sacramentale quale è propria di un ministero ordinato.
Uno dei temi da esplorare – anche perché con il tempo è destinato a diventare drammatico – è quello della gestione di chiese non più utilizzate o scarsamente usate per il ministero. Bisognerà arrivare a forme di collaborazione da parte di persone competenti e responsabili, perché beni ecclesiastici non si perdano ma nemmeno diventino un peso schiacciante per un parroco che deve provvedere a tutto. A questo proposito un’osservazione da tenere presente riguarda il peso degli edifici religiosi nella programmazione e nell’azione pastorale. Un principio elementare è che il ministero dei preti sia a servizio delle persone e delle comunità, e non occupazione da guardiani di chiese da tenere aperte a tutti i costi. Non si decidono gli orari e il numero delle celebrazioni, per esempio, solo per garantire la valorizzazione di una o più chiese. Ridursi a custodi di un patrimonio immobiliare, per quanto di grande valore storico, artistico, religioso e culturale, sarebbe la più triste delle fini del nostro ministero.
E in riferimento al cambiamento necessario, uno degli aspetti venuti in evidenza in alcune esperienze francesi, e non solo, tocca il tema dell’itineranza. Questa presenta aspetti evidentemente problematici se si tratta di prestare servizi religiosi senza sosta, uno dopo l’altro, correndo da una chiesa a un’altra, alla fine riducendosi a svolgere un lavoro meccanico, pur con tutti gli sforzi di spiritualizzazione. Ne abbiamo conosciute di queste esperienze, con gli effetti spesso devastanti anche per la salute e per l’equilibrio dei preti. Itineranza è altra cosa dal nomadismo esclusivamente legato al culto; essa deve prendere un altro senso e, soprattutto, richiede un altro approccio e diciamo pure un’altra formazione. Itineranza dovrebbe voler dire, nel senso evangelico o anche paolino, non essere definiti dalla titolarità di una sede, di una chiesa (con le derive impiegatizie che ahimè abbiamo conosciuto!), ma essere al servizio di una comunità dispersa in un territorio e bisognosa di accompagnamento nel suo pellegrinaggio esistenziale credente. Cogliamo subito il sapore antico, originario, di una tale prospettiva.
Non è l’organizzazione territoriale il criterio decisivo, per quanto il rapporto con il territorio non possa essere mai trascurato, ma la presenza nella vita dei credenti che si raccolgono in piccoli gruppi o che, talvolta, possono e devono essere convocati in un’unica grande assemblea.
Servizio ai territori
Una terza pista di lavoro va individuata nel compito di testimonianza pubblica e di animazione sociale che la comunità cristiana ha sempre il compito di rendere, innanzitutto per essere se stessa e rispondere alla sua chiamata e alla sua missione, ma poi perché ha a cuore la comunità umana in mezzo alla quale rende la sua testimonianza e svolge la sua missione.
Su questo punto si sconta un limite che non è meno grave e insidioso della stessa progressiva riduzione numerica di fedeli e di preti, e cioè lo scollamento tra fede e vita, con la conseguenza di un’irrilevanza pubblica della presenza cristiana. Questa sembra caratterizzarsi solo per l’esercizio del culto, ma il più delle volte non per la qualità della coerenza personale e di gruppo nella vita sociale, nel lavoro, nel dibattito della cittadinanza, in linea peraltro con un diffuso senso di indifferenza per la cosa pubblica e di noncuranza per il bene comune.
Gli stessi laici, oltre ai chierici, che amano vestire albe e svolgere servizio all’altare, ripresi gli abiti consueti continuano con noncuranza e tranquilla coscienza a concorrere come molti a tante forme di diffuso malcostume o almeno a comportamenti tutt’altro che edificanti.
Proprio la situazione di disagio che subiscono le aree interne può diventare occasione di presa di coscienza della propria indivisibile responsabilità ecclesiale e civile. In questo senso, l’animazione che laici possono condividere con i ministri ordinati deve abbracciare le questioni poste dal territorio e le esigenze della gente che vi è insediata con tutti i disagi e le difficoltà che ciò comporta. Non è troppo ardito affermare che la presenza cattolica si risveglierà a una più viva e numerosa partecipazione quando avrà maturato anche la coscienza della propria responsabilità non solo ecclesiale, ma anche sociale e civile. Del resto l’irrilevanza morale e pubblica è solo lo specchio in cui si riflette l’insignificanza religiosa e culturale, e quindi anche spirituale ed ecclesiale. Queste cose stanno o cadono insieme. Per questo bisogna interrogarsi sulle severe esigenze del nostro essere Chiesa. Altrimenti risulta futile ragionare di presenza dei cattolici in politica; se non ci sono cattolici maturi e seri, non possono esserci nemmeno cattolici in politica, come del resto in altri ambiti.
La Chiesa non è estranea o indifferente di fronte ai problemi del lavoro, della salute, della solitudine, della carenza di mezzi essenziali alla sussistenza, e altro ancora. Contrastare una mentalità di attesa passiva di qualcuno o di qualcosa che arrivi da fuori, far sorgere volontà di iniziativa e di collaborazione: questo è un compito che una comunità ecclesiale si deve comunque dare. Soprattutto di fronte a temi che sono in modo peculiare connessi a quei territori: pensiamo ai flussi migratori non solo in uscita, ma anche degli immigrati che spesso penetrano perfino in angoli remoti del paese, o anche alla cura dei beni comuni come l’acqua e l’aria, o ancora più in generale la terra e la sua coltivazione, e in specie dell’ambiente sempre più minacciato anche nei territori più remoti.
Le aree interne formano la parte debole del paese. Noi crediamo però che la coscienza della debolezza e la ferma volontà di reagire, soprattutto se assunte in una luce di fede, sono in grado di produrre effetti anche superiori alle potenzialità effettive.
Se a questo si aggiunge la persistenza di un patrimonio ancora non del tutto dilapidato, dal punto di vista morale e religioso, allora le possibilità di riscatto, ecclesiale e civile, aumentano a dismisura. Si tratta di ricomporre le identità sociali e di ritessere il filo della coesione collettiva, di rifondare il legame sociale, in un contesto – purtroppo – di generale contrattualizzazione delle relazioni sociali. Bisogna, nondimeno, crederci e lavorarci assiduamente, non con eventi spot e manifestazioni che fanno notizia. Ci vogliono fervore e serietà. Difficile di questi tempi, ma possibile e necessario.
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